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Io e Marco conviviamo felicemente da una settimana.

Ci comportiamo come una vera squadra, col risultato che l'efficienza di approvvigionamento è raddoppiata. Abbiamo cibo e acqua a sufficienza, finché rimaniamo confinati in questo piccolo appartamento di periferia.

Ci laviamo regolarmente, un bel passo avanti. Ora ho il viso liscio come il culetto di un neonato e raccolto i miei capelli in un codino di fortuna, mentre lui ha lasciato la sua zazzera scura così com'è, fiero della sua virile peluria facciale. Non mi sembra vero di poter parlare con qualcuno, condividere le cose.

"...Ho sfondato il divano."

Mi avvicino per guardare il misfatto, e fa abbastanza ridere. La tappezzeria è rosicchiata dai topi ed era ovvio che prima o poi qualcosa avrebbe ceduto. "Ma chi te lo fa fare, Marco? Dormi con me."

Prima stranezza di Marco: si è rifiutato di condividere un bel lettone matrimoniale. Mi è dispiaciuto, perché mi ha fatto sentire come se fossi una specie di soggetto sessualmente ambiguo, che problema ha? Forse lo so. Porta ancora la fede al dito e smezzare il letto con una persona gli ricorda la moglie, o pensa di farle di farle un torto o comunque gli fa strano. Quindi mi decido a chiederglielo, e lui conferma con serenità.

"Che senso ha, Mac, farsi questi problemi nel bel mezzo della fine del mondo?" lo chiamo col soprannome che gli ho affibbiato. Marco come 'Mac' e 'Big Mac' quando ricordo che è più robusto di me.

Lui scuote la testa, fa il vago e va a prepararsi qualcosa di simile al caffè. "Te hai ragione, ma ogni mattina... ogni mattina mi svegliavo con la faccia di Silvia davanti alla mia, Alex, sai che significa? Sei mai stato sposato?"

Ammetto di no, e rimango a seguirlo con lo sguardo. Avere Marco intorno è un balsamo, non mi sono mai sentito così rilassato. Sento qualcosa di pieno nel petto, che mi si è ricostruito. È un uomo piacevole, alla mano, versatile e abbastanza intelligente. Devo anche ammettere che fin da subito ho iniziato a desiderare che dormisse con me, per avere accanto una spalla durante i miei attacchi d'ansia. Ho imparato più o meno a gestirli da solo, per forza di cose, ma ora che c'è Marco ho una voglia sfrenata di farmi consolare. Perché sono umano, e Dio solo sa quanto ho pianto e sofferto senza uno straccio di persona accanto. Per cinque anni. Cinque, lunghi anni dalla vittoria dell'infezione e dall'estinzione umana.

"Va bene."

"Cosa?" riemergo dai miei pensieri. Mi prende sempre in contropiede, quando parla dal nulla. Lo raggiungo all'angolo cottura e mi verso due dita di 'caffè', per modo di dire.

"Dormire insieme è sensato" dichiara, sorseggiando distrattamente dalla tazzina sbeccata. "Ci copriamo le spalle nel dormiveglia e restiamo uniti in caso di intrusione zombie."

"Zombie? Li chiami così?" argomento, contento della sua scelta – un po' obbligata, dato il divano scassato.

Stringe le spalle possenti. "Perché è quello che sono."

"Mi sa troppo di americano. Direi che somigliano più a uno di quei quadri di Nicola Samorì: devastati, destrutturati, ma hanno ancora un che di umano. Credo." Mi accorgo di aver fatto una riflessione strana. Marco mi guarda curioso.

"Sei un critico d'arte o cosa?" chiede. Si vede che vuole sapere qualcosa in più su di me. In questi giorni non sono stato un gran chiacchierone, pur avendo costantemente gioito da ogni poro.

"Sono laureato in storia dell'arte" ammetto con un po' d'imbarazzo, dato che quella triennale non mi è mai servita a niente. Dopo l'università ho cominciato a lavorare come uno schiavo per mantenere la mia ragazza-madre e suo (disgraziatamente, anche mio) figlio. Sono un uomo orribile, lo so. La pandemia ha ucciso sei miliardi di persone e io mi ostino ancora a pensare male di lei, Giada. Siamo stati insieme per così pochi mesi che, quando mi disse di essere incinta, desiderai buttarmi da un ponte. La sua famiglia ci obbligò a tenere il bambino e mi rimboccai le maniche, fino alla fine dei nostri giorni.

"Oggi pomeriggio vado in ricognizione," la voce di Mac mi riporta, di nuovo, alla realtà dei fatti. "La guida turistica dice che a un chilometro da qua c'è una farmacia."

"Ti accompagno?"

"No, uno deve rimanere a guardia dell'appartamento" stabilisce, e io sono d'accordo. Grazie al cielo, non vediamo l'ombra di un Samorì da più di ventiquattro ore.

Como è un posto che sembra uscito da un libro di fatine. L'aria umida del lago, il sole e la vegetazione rigogliosa ci tirano un po' su il morale. L'architettura a tratti barocca è fatiscente, sì, ma parecchi edifici sono ancora in piedi. Io vengo da Roma, Marco da Pescara. Abbiamo fatto un bel po' di strada, quando eravamo soli. Chi l'avrebbe mai detto che in padania avrei incontrato la mia salvezza? Non so quante volte ho meditato di ammazzarmi, ché non aveva senso continuare a esistere senza una meta e senza uno scopo.

La mia meta è Marco, senza sentimentalismi; il mio obiettivo è far sì che entrambi possiamo sopravvivere a tempo indeterminato. Ed è giusto e nobile, agire per due. Mi commuovo al solo pensiero. Non conosco quest'uomo, è vero, ma è comprensibile che io mi senta così attaccato – di nuovo aggrappato alla vita – dopo pochi giorni di conoscenza.

Marco si infila i pesanti stivali da trekking e fa per uscire dalla porta. Ma prima lo fermo per un polso. "Grazie, la prossima volta esco io. Facciamo a turni."

Mi sorride coi suoi occhi a palla. Trovo il suo viso particolare: non ha niente di bello, se preso singolarmente; il naso grosso e un po' adunco, le palpebre gonfie e le rughe d'espressione, ma nel complesso è un uomo sorprendentemente affascinante. Il suo sguardo nero e profondo mi dice: "Non c'è di che, a dopo. Cucini tu, eh!"

Fame di carneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora