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"Dio, Alex, hai una pelle stupenda."

"Mh."

"Guarda qua..." sento che dice fra sé, le sue mani scivolano dalla base del mio collo fino alle natiche. "Sei un raggio di sole. Un filetto di platessa di prima qualità..."

"Raggio... di sole... Platessa..." biascico, e mi risveglio del tutto. Ho la bavetta alla bocca, che ha formato una piccola pozza sulla federa.

Sono rimasto spiaccicato contro il cuscino mentre Marco mi faceva un massaggio post-sesso. Mi sono addormentato come un pupo. Ora ho fame. Sì, come gli animaletti da svezzare.

Sono passati tre mesi dalla nostra partenza da Como.

Dopo aver trovato un bell'alloggio d'epoca a Vaduz, capitale del Liechtenstein, ci siamo abbandonati a una maratona bestiale. Sono giorni che ce ne stiamo rinchiusi qui, in una delle stanze di un castello ristrutturato del dodicesimo secolo, a scopare e limonare come due adolescenti con gli ormoni a palla.

Questa città ha del magico. Siamo immersi nel verde, in una valle tagliata a metà dal fiume Reno e perennemente soleggiata. Il castello sulla collina è stata anche una scelta tattica; dall'alto, da dietro i merli della torre, possiamo monitorare il territorio. Vaduz è stata una vera benedizione: oltre al rifugio medievale, della buona selvaggina locale e il meteo collaborativo, abbiamo profanato l'armeria del castello e cambiato attrezzatura; ora disponiamo di due asce aguzze e mortali, più due fucili a canne mozze con annesse ricariche. La ciliegina sulla torta è stata quando siamo scesi nella cantina vinicola, ubriacandoci come pazzi con delle ottime annate locali. Ci siamo ritrovati a masturbarci dalla gioia e scopare sopra, sotto e dentro le botti.

A questo punto, sommando tutto ciò, propongo a Marco di rimanere qui per sempre. Io e lui. Ché non ci manca niente ed è un vero paradiso.

"Saremo sempre a piedi, Al. Io so che in Germania troveremo finalmente un'auto per gli spostamenti. La nostra vita non potrà che migliorare..." si ostina a dire. "Siamo vicini. Non bisogna per forza arrivare a Berlino, ci fermeremo molto prima. Se ci dirigiamo verso est presto saremo a Monaco di Baviera."

Mi arrendo, che devo fare? Non ho per niente voglia di ricominciare a fare il nomade, ma non posso rimanere di nuovo da solo. Marco mi sta trascinando con sé da tre mesi e a me non dispiace; è sempre stato lui quello con le idee chiare. Prima di conoscerlo volevo morire ogni giorno, non avevo la minima aspettativa di vita.

E ora penso a quanto sia effettivamente bello convivere con un uomo. Facciamo le stesse cose, abbiamo gli stessi gusti e non ci si lamenta di niente. Con Giada stavo impazzendo già al secondo giorno sotto lo stesso tetto; ogni cosa che facevo non andava bene, era isterica e troppo gelosa. Invece, a Marco potrei letteralmente cagare in testa e lui non se la prenderebbe minimamente. Esempio un po' estremo, però è la verità.

La sua barba mi solletica l'incavo del collo, mi sta leccando come un Calippo. E pensare che una cosa del genere mi avrebbe fatto ribrezzo, in passato. Prima di tutto questo. Prima di abituarmi alle sue braccia, al suo sesso intrusivo, al suo afrore virile. Sento che il suo corpo ormai è diventato casa mia.

"A due chilometri da qua c'è una stazione radio europea" esordisce, continuando ad accarezzarmi le fossette di Venere in fondo alla schiena. Quelle dove preme i pollici mentre mi fotte amorevolmente. "Mi sento in dovere di andare a dare un'occhiata agli ultimi record, Alex. Tu resterai qua, al sicuro."

"La smetti di trattarmi come un minorato da proteggere? Sono tuo pari."

"Hai meno esperienza con le armi da taglio."

"Allora insegnami" chiudo duramente. Punto i gomiti sul letto e mi tiro su, sedendomi a cavalcioni sopra di lui. "Facciamo pratica con le spade?"

Un sorriso malizioso gli esplode in faccia. "Ma certo..." mi palpa le cosce a piene mani e le nostre virilità mezze sveglie si strusciano l'una contro l'altra. Ma stavolta sono serio.

"Guarda che intendo nel vero senso della parola, Big Mac."

Dieci minuti dopo siamo al primo piano del castello, a duellare con lame d'epoca.

L'elsa della mia spada è pesante come un macigno, sono troppo lento e Marco mi ha già rifilato due steccate di piatto sul culo. Mi sta facendo innervosire. Se c'è una cosa che mi fa storcere il naso, di lui, è che spesso mi sento trattato come una ragazzina. Mi considera più debole di lui a prescindere, ed è un pregiudizio basato solo sulla mia ferita al braccio, che mi ha costretto a fare ben due cicli di potente antibiotico. L'infezione e la febbre hanno faticato a passare, ma ora sto benissimo e l'unica cosa che mi è rimasta è una bella cicatrice da vichingo.

"Cambio arma. Prendi l'ascia a filo liscio." Marco mi indica l'arnese col metallo più tagliente.

Questo è decisamente meglio, per me. Assesto un bel bongo sonante sullo scudo di Mac, che incassa il colpo soddisfatto.

"Ho trovato la mia estensione del braccio" annuncio, tutto contento. "Verrò con te al punto radio."




Detto fatto, per modo di dire. Abbiamo camminato come beduini per duemila metri, comprese discese e salite. I nostri stivali hanno calcato non so quanti chilometri, in questo nostro viaggio. Non abbiamo mai visto anima viva, oltre ai non morti. Eppure, Marco non ha voluto rinunciare a questa sortita.

Ci siamo tenuti alla larga dalle alte densità di case, anche dalle fattorie; spesso gli infetti si radunano nelle rimesse di bestiame per ciucciare carcasse di bovini e pollame. Ormai io e Marco sappiamo evitare i punti di maggior probabilità di incontro ravvicinato.

La stazione radio è una casupola tetra e, naturalmente, abbandonata alla malora. L'apparato di trasmissione è ancora in piedi, i cavi dell'alta tensione sembrano miracolosamente intatti. Io e Marco ci avviciniamo cauti, fiduciosi del fatto che alle nostre schiene è agganciato un fucile per uno. Ho inoltre una piccola ascia ancorata al busto, nascosta dalla mia stropicciatissima giacca a vento da escursionismo. Mac è vestito allo stesso modo, ma col cappuccio tirato su per non so cosa, dato che non c'è né vento né pioggia. Forse ha paura che un piccione gli caghi addosso.

Con un calcio poderoso ai cardini ossidati, Marco sfonda la porta principale e siamo dentro. La puzza di chiuso e di muffa rappresa ci invade le narici, tiriamo lo scaldacollo fin sopra al naso e procediamo con le torce. Nessuna traccia di infetti.

I sistemi di trasmissione come questo sono fatti per durare nel tempo, anche senza la manodopera umana. Marco lo sapeva. Quindi ci appressiamo alla parete dei comandi, e ci mettiamo in ascolto. Da gennaio duemilaventicinque a oggi: sette maggio duemilatrenta.

Passano le ore, sondiamo giorno per giorno ma niente, solo il solito rumore di fondo cosmico. "Andiamo via, Mac" appoggio le mani sulle sue spalle, tirandolo appena. Ma l'asino non ne vuole sapere. Rimane piazzato sulla poltrona spuntata fino a quando smette di crederci anche lui.

Ci alziamo e andiamo verso la porta, gettando un'ultima occhiata ai puntini luminosi della saletta. Proprio quando stiamo per varcare la soglia, il cuore mi si gela nel petto.

―Zzz... Nessu-zzz... Ropa-zzz... quarantotto gradi est...―

"Alex! Prendi nota!" urla Marco, mettendomi un'ansia addosso indescrivibile. Ci precipitiamo alla parete attrezzata, lui ascolta e io segno con un gessetto al muro, raccolto da per terra.

Riascoltiamo quel messaggio più di venti volte. Abbiamo gli appunti con le coordinate geografiche. Risale a soli due mesi fa. La voce era quella di una donna.

Fame di carneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora