Capitolo V. La noia è la migliore amica dei segreti

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Se anche Thranduil fosse stato così stanco da chiudere gli occhi e scivolare nell'oblio del sonno, quella sera gli sarebbe stato impossibile. Chiuse il libro, quello sull'idraulica, e scese dal letto. C'era un rumore di sottofondo che gli impediva di rilassarsi e Thranduil non poteva giurare che fosse solo nella sua testa. Poteva giurare, però, che i suoi pensieri erano diventati assordanti.

Thranduil uscì dalla camera e si diresse verso le scale. Quella notte il cancelletto era rimasto aperto, come un invito a girovagare, e Thranduil scese al piano terra, fino alla porta d'ingresso. Tre giri di chiave e poté uscire nell'aria della notte; i pensieri più rumorosi si quietarono e nella sua mente regnò il silenzio totale.

All'orizzonte si stagliavano le alture che aveva già visto col sole, ora scure e inospitali, la vegetazione scarna e magra – più simile a dita scheletriche e ragnatele sotto la luce argentata. Thranduil sollevò il viso al cielo, verso qualcosa di familiare e confortante.

Le stelle.

Sforzandosi, avrebbe potuto riconoscere delle costellazioni conosciute. Poteva vedere lo Spadaccino del Cielo levare la spada verso il suo nemico, l'Amante delle Stelle ammirare il mare di luce che lo circondava, e, infine, le Sette Stelle a monito per il Nemico, in un mondo in cui dei Valar non sembrava esserci traccia. Ma era la sua mente a prendersi gioco di lui. Non importava quanto guardasse intorno a sé, si trovava sotto stelle sconosciute in un cielo sconosciuto.

Thranduil si lasciò lo spiazzo di terra battuta alle spalle e camminò nel campo, l'erba umida sotto i suoi passi, la casa distante e non più una presenza minacciosa. Chi lo aveva condotto in quel mondo? Chi lo aveva trascinato con l'inganno lontano dal suo popolo e da suo figlio? O forse, la voce di Legolas era stata reale ed era stato Thranduil a perdersi nell'inseguirla. Chissà cosa pensavano di lui i suoi soldati, suo figlio, del modo in cui era sparito, senza una parola, senza dar segno di volersene andare. I pensieri di fuga erano stati solo pensieri, eppure qualcuno li aveva uditi e li aveva esauditi. Chiunque fosse, Thranduil stentava a credere che fosse benevolo.

Nessuno con buone intenzioni avrebbe potuto allontanare un re dal suo regno del momento del bisogno.

Qualcosa di umido gli sfiorò il palmo della mano e Thranduil tornò consapevole dei dintorni. Il cane della donna era uscito e gli era di fianco, una presenza quieta e addirittura... confortante.

«Non sarebbe contenta di saperti qui» gli disse.

Il cane sollevò la testa, con le orecchie drizzate, e non diede altro segno di aver capito. Non che a Thranduil dovesse interessare di come avrebbe reagito la donna. Se lei avesse scoperto che il cane era uscito, nel pieno della notte, a fare una passeggiata al suo seguito, non avrebbe fatto comunque niente al cane. Avrebbe borbottato, sì, ma quel cane, per quanto lei sembrasse trovarlo esasperante, le era caro.

Ora, i suoi passi silenziosi erano seguiti dal fruscio del cane tra l'erba, e i grilli presero a cantare, i gufi e le civette a parlare tra loro. Nulla faceva pensare a Thranduil di essere solo, la vita di quel mondo presto seppellì e attutì i sensi di colpa. Non era solo. Era lontano dal suo popolo e da suo figlio, ma intorno a lui c'era vita, una vita diversa, una vita che non avrebbe potuto scoprire altrimenti.

Thranduil passò le dita tra il pelo lungo sulla schiena del cane. Aveva ancora tanto da scoprire su quel mondo.

E sulla donna.

Il cane si fermò e guaì e il piede di Thranduil si scontrò con qualcosa di... morbido? Sì, morbido e così fetido che si sorprese di non essersi accorto prima dell'odore.

Sotto la luce delle stelle, la carcassa della pecora era visibile come se fosse stato giorno. Thranduil si accovacciò e ne sfiorò il vello. L'avrebbe detta una delle pecore della donna, ma non poteva sapere se ci fossero altri pastori nella zona e si trattasse di una bestia vagabonda.

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