"Rose rosse per te"
Tornai a casa verso le 16:30, la mamma non era a casa perché lavorava e anche papà, c'era solo James che stava studiando. Lo salutai velocemente e andai in camera mia. Indossai dei vestiti più comodi: una semplice tuta calda enorme e un paio di calze pesanti. Alzai il cappuccio della felpa fino a coprirmi la testa, lasciando scivolare delle ciocche di capelli verso l'esterno così che non diventasse troppo piccolo. Presi il mio computer e mi sedetti sul letto con la schiena appoggiata al muro; aprii la pagina di YouTube, in cerca di qualcosa che potesse distrarmi. C'erano tutorial per trucco, trailer di nuovi film, video ASMR e anche tutorial di cucina. Continuai a scorrere nella home un video dopo l'altro, non selezionandone neanche uno. La cosa andò avanti per una buona ora, che passò molto lentamente, decisi poi di spegnere il computer e abbandonarlo sul lato opposto del letto. Trovai le mie cuffie nere della JBL sulla mensola vicino a me, e le sincronizzai con il mio telefono. Inizialmente le misi solo intorno al collo, così da poter decidere che tipo di musica mi avrebbe accompagnata per quel pomeriggio e poi le indossai, facendo partire una tranquilla playlist contenente canzoni in cui il pianoforte faceva da protagonista. Misi il volume non troppo alto e chiusi gli occhi; in quel momento non pensai a niente. Era come se nella mia testa ci fosse il vuoto, una sensazione orribile; sentivo solo delle corde vibrare e dei suoni uscire da diversi strumenti, nient'altro. Parve che neanche la musica facesse più effetto su di me. A un certo punto, nel bel mezzo della mia più totale tristezza, sentii James bussare alla porta. Riposizionai le cuffie sul collo e gli diedi il permesso di entrare.
"Ehi ragazzina." Sbucò con una vaschetta di gelato e due cucchiai.
"Che ne dici? Netflix e gelato?" mi chiese facendo un sorriso complice.
"Come farei senza di te?" Scossi la testa sorridendo.
"Probabilmente saresti in un angolino a piangere il fatto di non avere un fratello come me." Affermò sarcastico chiudendo la porta e sedendosi sul letto porgendomi un cucchiaio.
"Va tutto bene?" mi domandò, mentre cercavo di aprire la vaschetta sigillata.
"Sì, cioè, non proprio. Ma va bene, penso sia giusto, se non mi sentissi in questo modo non sarei una vera amica." risposi osservandolo e cercando di non fargli capire quanto stessi soffrendo.
"Non ho dubbi che tu sia una buona amica, ma questo non significa che debba sopportare tutto questo da sola." Concluse. Lo guardai e sorrisi leggermente per fargli capire che avevo afferrato il concetto, ma i miei occhi lucidi mi tradirono. Abbassai lo sguardo rapidamente, ma sapevo che già lui l'aveva notato.
Ripresi a tentare di aprire quella confezione, ma era davvero impossibile. Probabilmente vide la mia difficoltà nello svolgere quell'incarico e disse: "Da' qua, faccio io." Glielo porsi e con una mossa agile riuscì nell'impresa.
"Allora, che guardiamo?" chiesi accendendo la tv in fondo alla camera e affondando il cucchiaio nel cremoso gelato al cioccolato.
"Non dovevamo finire la serie di Sherlock Holmes?" mi ricordò.
"Ah già, allora metto quella, ma non iniziare a dire che tu sei Sherlock e io Watson, perché sappiamo entrambi che è al contrario." Lo avvisai scherzando.
"Mmh, non ne sono così sicuro."
Gli diedi uno spintone facendolo quasi cadere e sistemammo la postazione letto così che ci entrassimo entrambi.
Così, quella sera, mi affogai di gelato con mio fratello, guardando una serie tv fino a mezzanotte e alla fine, a scorte di cibo terminate, andammo entrambi a dormire.Prima di addormentarmi, pensai che l'indomani sarei tornata dai genitori di Sofia, per poter stare in qualche modo loro vicina.
Suonai il campanello dell'entrata sulla strada ma nessuno rispose, notai però che il cancelletto di ferro era socchiuso, perciò mi guardai attorno ed entrai, camminando sulla striscia di mattonelle in mezzo al giardino. La casa di Sofia non dava più quell'impressione di pace e gioia di prima; le tapparelle delle finestre erano abbassate, il giardino era lasciato a sé stesso e l'amaca era stata tolta. L'atmosfera era rigida e triste, e capivo perfettamente il perché. Bussai alla porta, non venne nessuno ad aprire. Bussai una seconda volta, ma niente. "Saranno usciti di casa" pensai tra me e me, ingenua, ma sapevo che stavo mentendo a me stessa perché qualcosa non andava in quella casa. Guardai attentamente la porta di legno bianco e notai che era graffiata: non capivo, l'ultima volta era intatta. Vidi anche che la serratura era rovinata, e non mi ricordai neanche di quel dettaglio, forse perché come per i graffi, era stata danneggiata solo dopo la prima volta che ero andata lì. Appoggiai la torta al cioccolato che aveva fatto mia madre per la povera famiglia della mia amica, sulla panchina accanto all'ingresso e feci un giro del perimetro della struttura per dare una controllata. Tutte le finestre erano chiuse, come quando le persone partono per una vacanza e 'sigillano' la casa prima di andarsene, ma mi sembrava ovvio che i genitori di Sofia non se ne fossero andati in vacanza. Vidi che c'era solo una finestra aperta, al piano inferiore, era quella del salotto in cui mi aveva fatto accomodare la mamma di Sofia. La mia curiosità mi spinse a decidere di entrare anche se sapevo che la mia paura era maggiore della voglia di capirci qualcosa. Svoltai perciò l'angolo e mi ritrovai di fronte alla facciata di destra dell'abitazione. A terra, sul morbido giardino, c'erano alcune schegge di vetro sparse qua e là, provenienti probabilmente dalla finestra; buttai lo zaino all'interno della casa attraverso 'l'entrata' e cercai di contrarre al massimo i miei muscoli per riuscire ad arrampicarmi e ad entrare. Fui felice di essermi allenata un po' durante il periodo estivo, anche se tutti gli effetti di quegli esercizi erano quasi del tutto svaniti. Proprio quando stavo per appoggiare un piede su un pregiato tappeto della stanza, mi tagliai la spalla con un pezzo di vetro sporgente della finestra rovinando anche la mia camicia a quadretti rossa e nera che amavo tanto. All'inizio il dolore fu acuto, dovetti tenere premuto sulla profonda ferita per qualche istante per evitare l'eccessiva fuoriuscita di sangue, ma malgrado quel piccolo incidente riuscii ad entrare. Dall'esterno non si riusciva a vedere ciò che solo in quel momento notai: la stanza era tutta sotto sopra, sembrava fosse scoppiata una bomba. Ma cos'era successo? Presi lo zaino, lo misi sulla spalla sana e dissi: "C'è qualcuno?" speranzosa di trovare un'anima viva, ma non ricevetti alcuna risposta, ovviamente. Mi mossi con cautela perché non sapevo cosa ci fosse ad aspettarmi, anche se iniziavo a farmi delle idee. Il comodo divano su cui mi ero seduta la prima volta era capovolto, la libreria era spoglia, dato che tutti i libri erano buttati a terra lì vicino, la TV era in mille pezzi, il tavolino di legno era bucato da delle pallottole provenienti probabilmente da una pistola. Ma cosa ci faceva una pistola in quella casa? L'idea di andarmene all'istante mi passò per la mente, ma volevo capire cosa fosse successo, quindi la scartai. Andai in cucina e la situazione non era molto differente, anzi forse era peggio. Mi diressi al piano superiore salendo dalle scale di legno marrone che adoravo e invidiavo tanto, la stanza di Sofia era intatta. Ma perché? La camera da letto dei suoi genitori anche, e neppure il bagno era stato toccato. Sentii un rumore provenire dalla soffitta. Cos'era? So solo che in quel momento la paura era l'unica cosa che provavo, il mio corpo si paralizzò tutto d'un colpo, non riuscivo a muovermi. Tremavo e stavo iniziando a sudare anche se avevo freddo. Il rumore si avvicinò lentamente, scese le scale della soffitta e qualsiasi cosa esso fosse, stavo per trovarmelo davanti; solo in quel momento riuscii a muovere le mie gambe per tornare al piano di sotto e cercare di andarmene da quella casa terrificante. Arrivai alla fine delle scale, lo sentii dietro di me, mi girai velocemente e vidi che era un uomo, vestito di nero, non era il papà di Sofia, aveva una cicatrice in viso, i capelli castani e gli occhi neri. Urlò: "Ehi tu! Non dovresti essere qui!" Cercò di afferrarmi per un braccio ma sfuggii alla presa e corsi verso la finestra da cui ero entrata e con tutte le mi energie mi buttai fuori, ma feci lo stesso errore e mi graffiai anche una mano. Emisi un gemito di dolore, ma non mi interessai delle ferite e del sangue. Corsi via senza guardarmi indietro; superai il vialetto e raggiunsi la fermata dell'autobus e per fortuna, non so in che modo, c'era un pullman che stava per arrivare. Presi quel bus, senza neanche sapere dove portasse: mi bastava andare via da lì.
L'autista e le persone sull'autobus mi guardarono preoccupate e fu in quel momento che vidi il color rosso acceso esteso sulla maglietta smanicata che indossavo sotto la camicia e sui pantaloni. Mi andai a sedere senza curarmi troppo di quegli sguardi straniti e chiesi solo quale fosse la destinazione. Scesi alla prima fermata fuori città. Il mulino distava qualche kilometro, che dovetti fare a piedi. Per fortuna era ancora giorno e il sole splendeva alto in cielo. Ogni tanto passava qualche macchina, una addirittura si fermò con una donna al volante che mi chiese se avessi bisogno di un passaggio, ma io gentilmente rifiutai. Controllai l'orario sul mio Apple Watch, segnava le 16:46, decisi di accelerare il passo. Sentii i graffi bruciare, ma preferii non fare niente, avrei potuto solo peggiorare la situazione in quel momento.
Giunsi finalmente vicino alla 'mia' pasticceria e con le giuste precauzioni mi diressi verso il mulino. La strada era infangata a causa delle piogge recenti ma era percorribile anche se praticamente in mezzo a un bosco. Il mulino era come l'ultima volta, almeno lì non era cambiato niente. Andai verso un gruppo di ragazzi e ragazze che parlavano seduti su una balla di fieno e gli chiesi dove fosse Charlie, loro mi dissero che era all'interno del mulino e mi chiesero se stessi bene. Gli risposi che non era niente di che e li ringraziai. Entrai nel mulino e vidi che stava spostando degli ammassi di legna secca che probabilmente usavano per accendere un fuoco per scaldarsi. I nostri sguardi si incrociarono, appena mi vide mi venne incontro e sembrando preoccupato mi chiese: "Ma che hai fatto?" Io lo guardai senza dire niente come se non ne sapessi niente. Mi prese per un braccio e mi disse: "Vieni, dobbiamo disinfettare i tagli."
Mi portò in una stanza che non avevo mai visto prima, sembrava essere una specie di cucina o almeno quello che ne restava. Mi fece sedere su uno sgabellino di legno e aprì uno sportello da cui prese una scatola del pronto soccorso. In quel momento non saprei spiegare il perché, mi venne in mente la torta che aveva fatto mia mamma e che avevo lasciato sulla panchina davanti alla casa di Sofia.
Charlie si inginocchiò a terra davanti a me e prese del disinfettante e una garza. Inumidì un batuffolo di cotone con il liquido verde e mi prese la mano ferita.
"Ahi!" Sussurrai tirandola in dietro, appena appoggiò il prodotto. "Brucia" dissi.
"Lo so, ma dobbiamo pulire la ferita, sennò fa infezione". Aveva ragione, quindi gli feci medicare la mano e dopo la spalla."Come hai fatto a tagliarti così?" mi chiese mentre lavorava.
Gli raccontai della porta, della finestra, dell'uomo in nero e della povera torta rimasta lì.
"La prima volta mi sono tagliata tentando di entrare, con una scheggia di vetro rimasta sulla finestra, e la seconda uscendo di corsa inseguita da uno sconosciuto." Affermai ripensando a quanto ero stata ingenua."Potevi farti veramente male, e quell'uomo poteva rapirti come hanno già fatto con Sofia." Disse mantenendo un tono di voce basso e un atteggiamento serio.
"Lo so, ma voglio capire cosa è successo alla mia amica e poi i suoi genitori non c'erano in casa.""È per questo che ti ho detto di fare come me, perché se rapiscono te e tuo fratello, dopo prendono anche i tuoi genitori..." chiuse la valigetta e la mise al suo posto. "Devi fare attenzione a ciò che fai. Sono serio: non puoi andartene in giro aspettando che ti rapiscano per avere la conferma di quel che ti dico, né tu, né tuo fratello. Dovete prendere una decisione." Pensai ci tenesse davvero a questa cosa. Da un lato però non aveva torto, dovevamo decidere cosa fare.
"Per quanto possa essere facile da dire, tu meglio di me sai che non è semplice." Affermai con lo sguardo rivolto verso il basso.
"Dannazione se lo so! Ed è per questo che ti sto dicendo di non aspettare." Mi guardò negli occhi, mentre i suoi esprimevano tutto quello che non riusciva a dire a parole. Distolse la visuale da me appena notò che la conversazione tra i nostri occhi stava diventando troppo intensa."Megan." Affermai, ritornando alle parole. "Il mio nome è Megan." Conclusi timidamente e lui, con le braccia appoggiate alle ginocchia, fece un sorriso di vittoria.

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Rose Rosse
PertualanganMegan, una ragazza sensibile amante della musica e della lettura, adora perdersi nei racconti più avvincenti e immedesimarsi nei personaggi principali; stavolta però, sarà proprio lei la protagonista della storia. L'avventura inizia quando sia lei c...