La sesta onda

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Mentre guidava, Vidar li osservava dallo specchietto retrovisore.

L’unico motivo per cui Nero e Ru rimanevano contenuti era perché se ne stavano abbracciati, aggrappati l’uno all’altro, come due fratelli impauriti dall’uomo nero. 

“Vi ho visti, alla scogliera. Non ho idea di che cosa siete.”

Gliel’aveva detto così, con le mani strette al volante della sua Volvo nera fiammante, fissando il volto scoperto, quello del moro, mentre il rosso nascondeva la faccia nell’incavo del collo dell’altro.

A Nero tremavano le braccia. Non aveva idea, non poteva averne. Non aveva nessuna, pallida idea di quello che li circondava, sapeva solo tre cose: di appartenere a Ru; che Vidar, l’uomo grosso e brizzolato che li stava trasportando, era stato quello ad aver slacciato loro le stringhe dai polsi, ad averli liberati da quel luogo orribile con tanti esseri che andavano avanti e indietro, che li punzecchiavano con aghi e sostanze intorpidenti e infine Nero sapeva che, se voleva evitare di finire nuovamente aggredito, doveva cercare di comportarsi in modo simile ai suoi simili. Nero, prima di Ru stesso, aveva capito che doveva imitare i comportamenti posati di quelli intorno, annuire, rimanere sereno quanto più possibile. Non agitarsi. Non muoversi a scatti. L’aveva comunicato a Ru con gli occhi o, forse, con la mente, e anche Ru aveva capito.

Il paesaggio fuori dal finestrino era mozzafiato. Nero e Ru avevano la nausea, per via di quelle altezze. La macchina aveva dovuto risalire la china del fiordo, fin quasi alla cima piatta, per poi ridiscendere verso la piccola cittadina, aggirandola sul lato della costa, e infine procedere sulla piccola collina boscosa che portava a casa Steffen.

La villetta era un luogo isolato, perfetto per soddisfare i bisogni di un lupo solitario. Non aveva vicini, non nel raggio di un paio di chilometri. La casa, livellata su due piani e interamente in legno di betulla, era stata costruita con le sue mani, dagli alberi dei boschi intorno.

Vidar si rivelò estremamente pratico. Con gesti rozzi e sicuri trasse Nero e Ru fuori dalla Volvo, li spinse sulla breve scalinata e furono dentro. Iniziò a mettere in chiaro le cose, pur sapendo che i due non lo comprendevano affatto.

“Per prima cosa, imparerete il norvegese. Avete delle corde vocali, usatele” spinse un dito contro la gola di Ru. “Parlerete come Cristo comanda.”

Vidar accese la televisione a schermo piatto, facendo saltare di paura i due. “Quella vi insegnerà parecchio, di questo mondo."

Nero e Ru indossavano due tute scarlatte slargate, un regalo della Croce Rossa. Erano teneri, con quegli scafandri addosso, oltreché di una bellezza oggettiva, spiazzante.
Dal canto suo, Vidar doveva procedere per gradi. L’agente Müller gli aveva esplicitamente detto che, in pratica, gli sarebbero stati col fiato sul collo. L’indomani, o forse la sera stessa, avrebbe già ricevuto la visita dello psichiatra. In più, sarebbe di certo sopraggiunta la Müller, qualche infermiere e pure qualche paesano curioso. La voce si era già sparsa per tutta la cittadina, colpa dell’assistente alcolizzato di Vidar, quello che un momento prima dormiva sottocoperta e un momento dopo correva sconvolto a destra e a manca.

“Vi dovete lavare. Poi vi farò mangiare.” Vidar li afferrò per la nuca e li guidò verso il piatto doccia. 

Loro lo lasciarono fare, perché credevano che tutta quella rudezza andasse bene, anzi, si sentivano grati nei confronti di Vidar. Dopotutto, era stato lui a portarli in un posto più tranquillo.

L’interno di casa Steffen non rifletteva la personalità del padrone. Le mensole mostravano fotografie di coppia, ricordi troppo dolorosi per avere la forza di sollevarli da lì, alle pareti verdognole stava attaccato qualche vaso pieno di fiori secchi. I fiori che tanto amava sua moglie e che un tempo, proprio come lei, erano stati splendidi e profumati.

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