𝐐𝐮𝐚𝐭𝐭𝐫𝐨

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Ci sono giornate che iniziano meravigliosamente: le mani dentro i suoi slip, i baci sul collo e le risatine accanto al mio orecchio mentre mi lamento della schiena dopo una notte passata a sperimentare.
Ci sono giornata che iniziano male, malissimo, soprattutto quando tua moglie è incinta di cinque mesi e non riesce a non discutere per la qualsiasi cosa.
Oggi è una giornata no. Una giornata nera. Con la differenza che quello incazzato, stavolta, sono io. Voglio dire, anche lei lo è, ma ormai le giornate in cui si sveglia bene si contano sulle dita di quasi due mani, quindi...
Amo questa donna con tutto me stesso e faccio il possibile per dimostrarglielo ma delle volte, accidenti, delle volte mi porta al limite con le sue discussioni assurde.
È iniziato tutto a pranzo, quando con estrema nonchalance mi ha informato che a partire da lunedì sarebbe tornata a lavorare al Canyon's. Ho riso quando me lo ha detto, perché, insomma, so che mia moglie è una donna intelligente e non prenderebbe mai in considerazione, sul serio, una cosa del genere. Lei mi ha trafitto con lo sguardo, si è alzata e ha lasciato la cucina. Senza aggiungere altro. Come se la sua parola fosse legge e non ci fosse nulla di cui parlare. Ho mollato il tovagliolo sul tavolo e l'ho seguita in sala informandola che lei non sarebbe andata proprio da nessuna parte. Il risultato? «Che fortuna che tu non possa dirmi cosa posso o non posso fare visto che non sei il mio padrone supremo.»
Onestamente? Le sue parole mi hanno dato parecchio fastidio. Soprattutto se consideriamo il fatto che non sono quel genere di persona e lei lo sa. Questa storia degli ormoni non mi piace poi così tanto, anzi, comincia proprio a sembrarmi una grande stronzata. Comprendo che molte cose si dicano solo per la rabbia del momento ma questa frase? Molly sa quanto detesti questo genere di discorsi, eppure, non si è di certo risparmiata. Io non sono proprio il padrone di nessuno, e mai lo sarò. Mi ferisce il pensiero che lei abbia utilizzato quella parola quando conosce bene le difficoltà che abbiamo dovuto affrontare per arrivare dove siamo adesso. Tutte le ansie, le paranoie... sin dall'inizio, l'unica che ho sempre cercato di fare con lei, è stato quello di essere la sua spalla, il suo confidente, non il suo dannato padrone che vuole imporle cosa fare e cosa non solo perché nettamente più grande di lei. Come ho già detto, comprendo questa storia degli ormoni, ma non mi piace affatto quando la si utilizza come scuse per dire queste cattiverie.
A quel punto l'ho guardata, deluso e ho annuito piano. A differenza sua, tento di riflettere almeno per dieci secondi prima di sparare cazzate. «Se anche lo fossi stato, non avrei fatto un buon lavoro visto che fai e dici quel che ti pare senza pensare un attimo alle grandi stronzate che dici. Esco a farmi un giro.»
E così eccomi qui, a vagare per le strade gelide di Boston, nonostante la primavera sia già arrivata da qualche giorno. D'accordo, anch'io potevo risparmiarmi di dirle che non sarebbe andata da nessuna parte ma è al quinto mese di gravidanza e già al secondo abbiamo preso un bello spavento visto che, proprio mentre stava lavorando, aveva iniziato ad accusare dolori all'addome. Quando mi aveva telefonato, ricordo di essere sbiancato, terrorizzato all'idea di perdere il nostro bambino. Allora non sapevamo ancora che sarebbe stato un maschio. Allora non sapevamo nemmeno se l'avremmo mai scoperto viste le forti fitte. Era venuto fuori che il bambino stava bene ma che lei doveva assolutamente smettere di lavorare e stare a riposo. I primi tre mesi sono quelli più delicati, più decisivi, persino il quarto è ancora traballante.
Usciti dallo studio della ginecologa Molly mi aveva abbracciato, in lacrime, e mi aveva promesso che sarebbe rimasta a riposo perché non voleva che perdessimo il nostro bambino.
Questo fino all'ora di pranzo di oggi.
Abbiamo scoperto che aspettiamo un maschietto giusto due settimane fa e lei già pensa di tornarsene a lavoro. È pura follia. Immagino che debba essere complicato per lei passare dall'avere dei turni ridotti a non lavorare più del tutto ma si tratta di una vita, non di un pupazzo che può decidere di mettere da parte quando gli va. È fuori discussione. Stavolta non mi importa, non esiste che io acconsenta. Preferisco che mi tenga il broncio per i successivi quattro mesi restanti, piuttosto che vivere con l'ansia che potrebbe affaticarsi troppo, sentirsi male, sollevare pesi eccessivi o chissà cos'altro. Risulterò uno stronzo ma pazienza, starò tranquillo solo quando avrò mio figlio tra le braccia, sano e salvo. A volte... santo cielo, vorrei solo scuoterla e metterle un altro po' di sale in zucca. Non capisce che sono preoccupato? Terrorizzato? Era così pallida quella volta... Dio, non voglio continuare a pensarci.
Sapevo che sarei finito qui nello stesso momento in cui sono uscito di casa. Arrivo davanti alla grande porta e suono il campanello. È sabato, primo pomeriggio. Danny non ha bisogno di spiegazioni per capire che ho discusso con Molly. È diventato una sorta di psicologo personale negli ultimi mesi.
«Whisky?» domanda mentre lo seguo nel suo studio.
Le pareti sono colme di foto di famiglia, spunti per tatuaggi, ritratti e certificati. Mi fa sempre sorridere divertito vedere come accanto a foto di neonati ci siano tartarughe marine, pin-up, facce di cantanti o citazioni famose. È tutto così opposto ma equilibrato. Tutto urla Danny qui ed è bello.
«Doppio, per favore» sospiro, accomodandomi sul divanetto. «Vivienne e i bimbi?»
«Al parco con i nonni. Io dovevo occuparmi di un paio di scartoffie, perciò, sono rimasto a casa» spiega avvicinandosi mentre mi porge un bicchiere.
«Se hai da fare, vado.»
«Nah, ho finito un'ora fa. Mi stavo solo gustando un attimo di silenzio ora che le gemelle sono in fissa con il karaoke. È una cosa giornaliera, amico, giornaliera» finge di piagnucolare.
Rido, scuotendo il capo e prendo un sorso di Whisky.
«Allora, che succede? Che ha combinato stavolta?»
«Presumi già che io non abbia fatto niente?» arcuo un sopracciglio, divertito.
«Se c'è una cosa che ho imparato con voi due è che sei un santo, altrimenti non si spiega come tu possa stare con mia sorella. Ci vuole pazienza con quelle due e tu e Caleb, anche se in modi differenti, ne avete parecchia» gesticola con il bicchiere in mano, il liquido ambrato che ondeggia ad ogni suo movimento. «In più, Molly è incinta ed è più irritante del solito. Deve essere stata lei a far qualcosa.»
«Mi ha detto che lunedì sarebbe tornata al lavoro. Non ne ha nemmeno parlato con me prima di decidere. Io le ho detto che non sarebbe andata da nessuna parte e lei mi ha detto che è fortunata visto che non sono il suo padrone e non posso dirle cosa o cosa non fare» spiego, riassumendo tutto.
«Caspita» fischia. «Si è superata. Ed è solo al quinto mese. Non immagini nemmeno quello che verrà all'ottavo, quando mancherà solo un mese al parto. O al nono, quando mancheranno giorni alla nascita e lei diventerà una iena perché non sopporta più i dolori, i piedi gonfi e i continui mal di testa» sospira, scrollando le spalle, come se stesse scacciando dei brutti ricordi.
«Ma tu non eri quello a volere sempre incinta Vivienne? Lo ripeti di continuo.»
«Sì, ma questo non vuol dire che sono un cretino che non sa cosa aspettarsi.»
Rilascio un respiro profondo, mollando il bicchiere sul tavolino. Non sono nemmeno più in vena di gustarmi il drink. «So che non sarà facile, non mi aspetto una donna sempre sorridente e sprizzante di gioia. So anche che non capirò mai fino in fondo cosa vuol dire portare in grembo una vita e me ne dispiaccio, perché se potessi togliere anche solo la metà dei fastidi che ha Molly, lo farei, ma... questo non significa nemmeno che possa sfogarsi sempre su di me. Io ci sono per lei, farei tutto pur di rasserenarla, però, non può farmi questo» scuoto il capo. «Se torna a lavorare, non ci passerò su così facilmente. E glielo renderò chiaro cristallino.»
«Sì, credo che tu debba farlo. Non c'è dubbio sulle cose che hai detto, so benissimo che è così e lo sa anche Molly. Probabilmente adesso si aspetta che torni a casa, ti scusi e accetti il fatto che vada a lavoro.»
Eh, già, è proprio così. Sa bene che potere ha su di me. Se dovessimo parlare di rapporto servo-padrone – definizione estrema, lo so – oserei dire che le cose stanno al contrario. Mi piego sempre per lei, sempre, perché cerco di andarle sempre incontro, ma questo non significa che mi vada tutto bene. Quando qualcosa non va ne parliamo e mi piace, mi piace che sia così che risolviamo i nostri piccoli problemi, però questo è troppo.
«Il solo pensiero che lei possa rischiare qualcosa... non voglio nemmeno pensarci, Danny. Mi terrorizza.»
«E ti fa incazzare che lei non ci arrivi» dice al posto mio.
«Sì, perché deve sempre sfidarmi» sbuffo. «Apprezzo pure questo suo lato, è quello che rende viva la nostra relazione, ma questa volta non ho alcuna intenzione di scusarmi per averle detto che non andrà a lavorare.»
«Se fossi rimasto avreste litigato di brutto, hai fatto bene a prendere un po' d'aria» annuisce.
«Già... è solo che odio quando ci sono questo genere di discussioni. Avrei solo voluto che almeno stavolta, al posto di sfidarmi, avesse capito il perché del mio scatto.»
«Invece si aspetta che tu capisca lei perché è incinta» annuisce ancora una volta. «Hm-hm. Va sempre così.»
«Che consigli?» sospiro. «Voglio tornare da mia moglie. È già difficile andare a lavoro con la consapevolezza che è sola in casa, quindi, quando sono libero preferisco tenerla sotto controllo. Anche se non ci parliamo.»
«Conoscendola ti terrà il muso ancora per un po', ma capisco il tuo punto di vista. E il suo. Nonostante stia facendo la cocciuta idiota.»
«Non chiamarla idiota. Tua sorella è molto intelligente, e conto su questo affinché capisca» borbotto. Sì, abbiamo discusso, ma non per questo permetto a qualcuno di darle dell'idiota. Quell'ostinata di una bionda è pur sempre mia moglie.
Danny sbuffa una risata e si alza. «Vai pure. Qualcosa mi dice che cederà. Probabilmente starà già piagnucolando ma non te lo farà vedere.»
Scatto in piedi. «Cazzo, è vero» passo una mano tra i capelli. «Devo andare. Voglio almeno stare a casa.»
«Non imprecare. Bacerai tuo figlio con quella bocca tra quattro mesi» mi punta un dito contro.
«Scappo. Grazie, D» gli rifilo una pacca sulla schiena e raggiungo la porta.
Quindici minuti dopo sono già davanti la porta di casa. La apro e la richiudo alle spalle. Molly non è in sala, ma il rumore di stoviglie renda nota la sua presenza in cucina. Tutto tace dopo che ho chiuso la porta, quindi, immagino mi abbia sentito. Stavolta non ascolta musica. Di solito le piace muoversi per la cucina con le cuffiette alle orecchie in modo da «pulire con ritmo» come dice lei.
Lascio le chiavi sul tavolino, mi disfo delle scarpe e mi avvicino al divano. Non ho voglia di guardare la televisione, ma non voglio nemmeno starle troppo lontano nel caso si affaticasse.
«Dove sei stato?» la sua voce sottile fra trapelare il nervosismo.
«Da Danny» rispondo, facendo zapping tra i canali. Non sto nemmeno prestando attenzione.
«E hai bevuto» constata.
«Non sapevo mi fosse vietato anche solo un drink con mio cognato» ribatto, giocherellando con il telecomando sul ginocchio.
«Non ho detto questo» ribatte stizzita.
«Bene.»
«Bene» brontola.
Non le piace che io non la stia guardando, che non stia facendo nulla per cercare di risolvere la situazione. È chiaro che si aspettava delle scuse ma io non ne ho l'intenzione, perché non ho proprio nulla di cui scusarmi. Oh, sì, posso scusarmi per aver ribattuto bruscamente prima di uscire ma nient'altro. Ce la siamo vista brutta mesi fa, non ho la minima intenzione di ripetere l'esperienza.
Sento i suoi passetti infastiditi tornarne in cucina e poi il rumore dell'acqua.
Passo più o meno un'ora sul divano, in attesa di qualunque cosa, ma visto che non succede un accidente, filo nel mio studio. Ho un po' di lavoro da sbrigare e preferisco pensarci adesso piuttosto che lunedì. Cerco sempre di lavorare più il sabato mattina così da non avere troppo da fare in settimana e riuscire a tornare a casa prima. Abbiamo discusso anche su questo, ovviamente. Molly si sente in colpa quando vede gli occhi stanchi e la schiena rigida, preferisce che io me la prenda con più calma perché non vuole vedermi così ma a me non importa di affaticarmi più del solito se poi ho il tempo per stare con lei. Solitamente alle quattro riesco già ad essere a casa ed è perfetto, sono ore in più che passo con lei, perciò, chi se ne frega se devo ammazzarmi di sabato. Potrebbe avere bisogno di me, potrebbe succedere la qualunque, e io voglio solo essere preparato.
Passo le successive tre ore tra scartoffie, numeri e bilanci. Arrivate le sei, mi accerto che quattro più tre faccia davvero sette sulla calcolatrice. E questo è chiaramente il segno che per oggi ho concluso.
Strofino le mani sugli occhi, in cerca di relax e sbadiglio. Molly bussa, per rendere nota la sua presenza. Ho lasciato la porta aperta nel caso dovesse chiamarmi ma non si è fatta sentire.
«Ti ho preparato una camomilla. Hai finito?» chiede.
Azzardo un'occhiata nella sua direzione. Non ho bisogno di chissà quanto tempo per capire che ha pianto. Non adesso ma sicuramente lo ha fatto, riconosco benissimo quando accade. Il mio cuore si crepa e per un attimo sono tentato di alzarmi e abbracciarla ma stavolta ho bisogno che lei capisca sul serio il perché del mio rifiuto secco.
«Per oggi sì» chiudo la cartellina di fronte a me e scosto la sedia girevole.
Molly si avvicina, supera la scrivania e mi cede la tazza. Forse ci siamo. Ti prego, ragazzina, dimmi che ci siamo perché sono stufo di starti lontano. È nervosa mentre sfioro le sue dita e afferro la tazza. Prendo un sorso di camomilla e poso la tazza sulla superficie piana. Lei non si sposta e la speranza comincia ad affiorare nel petto.
La guardo, in attesa di qualsiasi cosa, e scorgo il momento esatto in cui la diga cede e le lacrime cominciano a scivolarle giù per il viso. Molly scatta nella mia direzione nello stesso istante in cui io allungo le mani per poterla stringere. Non me ne frega un accidente se abbiamo discusso. Se mia moglie piange, non esiste che io la ignori. La mia ragazzina si rifugia nell'incavo del mio collo mentre io mi stringo la sua coscia sul grembo. Singhiozza per un paio di minuti, io accarezzo la sua schiena e sospiro. Sono a tanto così dal cedere.
«Mi dispiace tanto, Tom. Sono stata una stupida. Non volevo litigare» singhiozza tirandosi su. «Non intendevo niente di quello che ho detto, ero solo... arrabbiata perché mi hai detto di no e volevo infastidirti.»
Annuisco. «Lo so, ma ha fatto comunque male. Io sono la tua spalla, Molly, non il tuo padrone.»
«Lo so, certo che lo so» stringe la mia mano. «Non tornerò a lavoro lunedì. Alex mi ha strigliato per bene e mi ha messo paura.»
«Perché, che ti ha detto?» domando.
«Mi elencato tutti i rischi a cui sottoporrei me stessa e il bambino e poi ha detto che nel momento in cui mi sarei presentata ti avrebbe chiamato. Ovviamente ha evidenziato il fatto che ti avrei tirato via dal lavoro e io non voglio che smetti di lavorare solo perché sono così testarda» spiega, tirando su col naso.
Le passo un fazzoletto e accarezzo la sua schiena. «Tu hai capito che l'unica ragione per cui non voglio che lavori è quella di tre mesi fa, giusto? Hai capito che non c'è nulla che possa farmi cambiare idea perché si tratta della vostra sicurezza?»
«Sì, l'ho capito. È solo che i mesi più delicati sono passati e ho pensato che... che avrei potuto riprendere a fare qualche turno così da non annoiarmi.»
«Tesoro, hai idee che ti fuoriescono dalle orecchie per un trilione di libri. Penso che tu possa fare tutto tranne che annoiarti al momento.»
«Penso di aver sbandato un attimo con l'idea del lavoro.»
«Già.»
«Mi dispiace tanto. Io ti amo tantissimo e non penserei mai e poi mai le cose che ho detto. So che sei il mio migliore amico prima di tutto e che non ti imporresti mai sulle mie scelte» accarezza il mio viso e io mi sciolgo come neve al sole.
Dodici anni più piccola di me e mi rende un dodicenne ormonato e impazzato per lei.
«Solo quando sono sconsiderate» dico facendola ridere.
Finalmente una risata.
Sembra di tornare a respirare.
Molly slaccia il bottone dei miei pantaloni e io sono grato, davvero tanto grado di aver cominciato a seguire il suo consiglio: non indossare la biancheria quando siamo in caso, tanto non ci serve. La vedo sollevare il tessuto del vestitino che incornicia perfettamente l'addome arrotondato, sospiro di sollevo quando si abbassa sulla mia lunghezza, riempiendosi della mia essenza.
«Mi dispiace di essere stato così brusco» stringo il suo viso tra le mani.
«Non mi dispiace che tu sia brusco adesso» mormora.
«Questo posso farlo» annuisco assolutamente in accordo.
«Bene» ridacchia.
«Bene» bisbiglio sulla sua bocca.

Dieci pagine di capitolo per una discussione cretina. Io non ce la faccio con sti due 

𝐃𝐀𝐍𝐍𝐘, 𝐓𝐑𝐄𝐕𝐎𝐑, 𝐓𝐎𝐌, 𝐂𝐀𝐋𝐄𝐁Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora