33.2 Una fuggitiva disperata

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La locanda era segnata sulla mappa. Non aveva stalle, così legai la cavalla a una staccionata sul retro. Un servo le portò una bacinella d'acqua e un pezzo di pane raffermo. Calla mantenne un atteggiamento fiero e austero, resistette alle moine del giovane demone, non si preoccupò per la sua padrona, non si gettò sul cibo come un qualunque animale, nonostante fosse anch'essa a digiuno da parecchie ore. Iniziavo a dubitare della sua vera natura; era più umana e educata di me.

Kalos, così si presentò il giovane che mi aveva accolta, mi accompagnò all'interno.

Assomigliava in maniera inquietante alla stamberga dello zio Ares: c'era un gruppo cospicuo di demoni che giocava a carte in un angolo, accompagnando la sfida con boccali di liquido spumeggiante dal sapore aspro. Una coppia di elfi cenava a lume di candela, una fata dalle ali rosa pallido sonnecchiava come una bambina su un divanetto imbottito, con un giornale aperto abbandonato sulle ginocchia. Una bellissima demone dai capelli corvini e le corna da antilope serviva da bere al bancone. In attesa della sua ordinazione, un uomo che mi dava le spalle se ne stava appoggiato al tavolo, la schiena ingobbita e la testa nascosta tra le braccia incrociate. Spuntavano solo i capelli: più bianchi della prima neve a gennaio.

Kalos parlò di me nella lingua demoniaca e destò l'attenzione di tutti gli ospiti. Indicava con foga la porta, forse alludendo alla mia cavalla e al fatto che fossi giunta fin lì in groppa a essa.

«Parla la lingua comune, maleducato» lo rimbottò il cuoco. Era un orco grasso ma con un viso umanoide. Si avvicinò sornione alla bella demone, le scoccò un viscido bacio sulla guancia e una pacca sul sedere. Quella, invece che infuriarsi, sorrise e arrossì.

Io rimasi pietrificata all'ingresso.

«Vieni qua, dolce fanciulla. Non ti mangiamo.»

L'oste scoppiò a ridere. «Forse qualche tuo parente lo fece, anni fa!»

Il suo compagno si rabbuiò. «Nessuno nella mia famiglia ha mai praticato il cannibalismo, Omorfia!»

«Ma scherzavo, amore mio! Su, vieni pure, ragazzina, non capita tutti i giorni di avere un'ospite mortale.»

«Ma un ospite che sta per morire sì... quello capita molto spesso!» commentò uno dei commensali. Gli altri esplosero in fragorose risate.

Io sgranai gli occhi e retrocedetti di un paio di passi.

«Anthartes, un'altra battuta di questo tipo e ti faccio saldare il conto delle ultime tre settimane, seduta stante! Idiota!»

Il cuoco era davvero inferocito.

Omorfia mi fece cenno di sedermi su uno sgabello libero.

Ubbidii solo perché ero troppo annichilita per scappare. E anche troppo stremata, affamata, assetata... Ero stanca di fuggire.

«Da dove vieni, dolcezza?»

Vuoto di memoria.

Frugai nelle tasche del mantello e misi sul bancone due monete d'oro. Non conoscevo la valuta. L'oste le fissò spaesata, ne prese una sola e mi restituì quattro monetine più piccole, di bronzo, con un fiore stilizzato sul retro.

Il cuoco, nel frattempo, se n'era tornato bofonchiando in cucina. Gli altri demoni ripresero la partita a carte, la coppietta invece salì le scale che conducevano con tutta probabilità alle camere da letto.

«Mortale o mezza-demone?»

L'uomo vicino al quale mi ero seduta, aveva levato lo sguardo.

Sussultai nel rimirarlo in volto. Era di una grazia abbacinante. Le sopracciglia erano nivee come i capelli, gli occhi di un azzurro cerulo, le labbra di un rosa spento, i lineamenti dolci e delicati, quasi femminili, disegnavano un ovale perfetto su un corpo statuario.

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