5. Un regno demoniaco

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"Non te l'ha mai insegnato nessuno che non bisogna parlare con i demoni?"
"Stai dicendo che non dovrei parlare con te?"
"Non prenderti gioco di me, principessa. Se mai dovessi vedere un demone su queste terre, promettimi che fuggirai. Non provare a parlargli, non mostrarti benevola, non lasciargli il beneficio del dubbio. Se vedi un demone, scappa. La tua unica speranza è che lui non ti voglia inseguire."


Nei nostri libri di storia è riportato un periodo molto buio in cui la nostra razza rischiò l'estinzione a causa dei demoni. Questo periodo, intercorso molti, moltissimi anni or sono, terminò quando i Dodici Dèi decisero di proteggere le nostre terre benedicendole con la loro magia.

Noi iniziamo a contare gli anni da quel giorno, nel quale nacquero in via ufficiosa le Gemme Sacre, ventisette isolette circondate da un profondo mare temperato, che non potevano in alcun modo essere sfiorate dalle cruente guerre che con periodicità si susseguivano tra le molteplici creature magiche che popolano la nostra dimensione.

Nonostante ciò, alcuni demoni riuscivano comunque a entrare, aggirando le barriere poste a protezione della nostra inviolabilità.

La nostra triste storia narra che, due secoli or sono, un'orda di demoni invase la capitale. Quei mostri senza Dèi rapirono centinaia e centinaia di bambine, tra i dodici e i sedici anni.

Nessuna di loro fece più ritorno, né col ventre grinzoso, né con un mezzosangue in grembo.

Il mercato della carne, una delle più aberranti leggende. Anche se, a conti fatti, di una leggenda non si trattava, poiché non nascondeva un fondo di verità. Era essa stessa la pura e semplice verità.

I ratti da lì in avanti, nell'arcipelago, diminuirono. Forse perché gli abitanti stavano più accorti, le ragazzine non uscivano mai da sole, ma sempre accompagnate, furono addestrati dei corpi di guardia e alle navi straniere fu severamente vietato attraccare nei porti senza permesso.

Qualcuna ancora scompariva, qua e là, soprattutto nei pressi delle zone proibite.

La gente diceva che se la fossero cercata.

E io? Io me l'ero cercata?


«Mia regina, ci siete riuscita» si congratulò l'alto elfo e i suoi occhi si commossero mentre si complimentava con la femmina immortale.

Eravamo sbucati in una pianura oscura, appena fuori da una foresta di conifere. Davanti a noi, una città immersa nella notte riposava quieta. Dalle finestre delle case luci biancastre segnalavano la presenza di vita. Sullo sfondo, quasi in bilico sulla cima di un'immensa rupe la cui forma rassomigliava a quella di un becco di un rapace, svettava un palazzo immenso, simile a un castello delle fiabe. Dal mastio centrale emergevano guglie così alte che sembravano voler infilzare le stelle nel cielo, le torri difensive con le loro vetrate verde acqua proteggevano la struttura, mentre dal cammino di ronda si intravedevano luminescenze argentate sospese nel vuoto, forse comete rapite da quelle divinità immortali e poste come scudo alla loro dimora imperiale.

Vomitai un liquido verde rame secreto dal mio fegato stremato. La mia bocca si impregnò di un sapore amaro e corrosivo, mentre le mie gambe iniziarono a vacillare.

«Si è pure pisciata addosso, la mortale» commentò sprezzante il lupo.

La femmina si voltò a osservarmi.

Nel frattempo, nel buio della notte, sopraggiunse una carrozza. Non un rappezzato carro mortale, intagliato nella corteccia di pino marittimo. No. Comparve dinnanzi a noi un mezzo di trasporto regale, intarsiato d'oro, illuminato da levitanti luci azzurrognole. L'intonaco era di un blu elegante, il colore dell'oceano che non avrei mai più rivisto.

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