46. Un peccato immortale

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Le pietanze scomparvero per merito della trasduzione. Non rimase nemmeno il vino, neanche un bicchiere, la tovaglia. Sul legno lucido di ciliegio si riflettevano fiamme danzanti, distanti e assenti nella penombra della sala.

Elijah prese posto a capotavola, si alzò in piedi, girò su se stesso prima di appoggiare i pugni serrati su uno schienale e abbandonare il viso.

Bello e dannato, con quell'aura immanente e quegli occhi spettrali.

Celeste vivo, con venature bianche che trapassavano i contorni dell'iride.

«Non ricordo il nostro inizio, amore mio, sono passati troppi millenni.»

Trasalii.

Avrei forse scoperto l'origine della nostra dimensione?

Sarei sopravvissuta a quella verità?

«Eravamo un centinaio, di stirpe guerriera. Ma io ricordo solo di una ventina di essi, in un'altra incarnazione. Mi perdonerai se talvolta parlo di me stesso come di un lontano parente mentre in altre riconosco che sono la medesima persona. È difficile spiegare a un mortale il mio genere di replicazione, sto facendo uno sforzo enorme per trovare i termini giusti.»

Feci un passo avanti. Lui emise un sorriso flebile, grato per l'incoraggiamento.

«Non era la prima dimensione su cui approdammo, ma fu quella che deperì in maniera più rapida e inclemente. Sembrava non ci fosse niente da fare, eravamo impotenti. Questa terra è mortale, prevede un inizio e una fine in ogni cosa, anche nella magia. Questa terra ci vedeva come un'aberrazione, un cancro, un'infezione. Dovevamo lottare per mantenere l'equilibrio, celebrare sacrifici quasi ogni giorno.» Scosse il capo al ricordo. «E i demoni... erano esseri corrotti. Un tempo li ho amati, sai? Ho giaciuto con molti di essi, per alcuni ho nutrito una profonda stima, per altri un affetto sincero. Ma uccidevano i mortali, i figli legittimi di questa dimensione. Per loro erano foglie secche sotto le suole, fiori da cogliere e lasciare appassire nei vasi. Non ne comprendevano l'importanza, non comprendevano il perché della loro esistenza.»

Si chinò in avanti, sempre più sofferente.

«Alcuni sostengono che i demoni si fossero generati grazie alla nostra invasione, altri che vi fossero già, ma si nascondessero sottoterra, nelle grotte, negli abissi. Amore mio, non posso dirti di più. È complicato. Quello che ti interessa sapere è che un bel giorno la razza umana fu portata sull'orlo dell'estinzione e alcuni finalmente decisero di fare qualcosa, di intervenire.»

Sudavo ed ero percorsa da brividi di gelo, cercavo di trattenerli mordendomi forte il labbro.

«Eravamo in tredici, molti altri se n'erano andati, prima che fosse troppo tardi. Vigliacchi. Altri non parteciparono. Tredici demoni originari, tredici divinità, riunite in un solo luogo per trovare una soluzione: preservare la vita su questa dimensione. Una mia cara sorella propose un piano: un luogo sacro, inviolabile, in cui lasciar prosperare la vostra specie, un luogo ameno, paradisiaco, ma circoscritto, in cui i demoni non sarebbero mai potuti entrare e voi non sareste potuti uscire. Un ghetto.»

Rise. Non ne compresi la motivazione.

«Idea impietosa e infantile. Mi opposi con fermezza. Dovevamo educare i demoni al rispetto della vostra specie, spiegare loro che era grazie alla mortalità che la magia fluiva veloce nelle nostre viscere, che la dimensione stessa esisteva in vostra funzione e che senza di voi sarebbe crollata. Dovevamo combattere la loro violenza, non chiudervi in cella. Dovevamo lottare al vostro fianco, non farvi prigionieri!»

Si scaldò, gli occhi divennero lavanda.

«Ma ero l'unico a pensarla così. Gli altri dodici veneravano la pace. L'idea era semplice da attuare e richiedeva loro un sacrificio lieve. Abbandonai il concilio, mi tirai indietro. Nessuno mi venne a cercare.»

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