11. Una via di fuga

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Per i successivi due giorni non mi lasciarono evadere dalla camera nemmeno mezzo secondo.

Li implorai, piansi, gridai, chiesi perdono, li maledissi più e più volte, li supplicai in tutte le lingue che conoscevo, adducendo favori, promesse, perfino minacce. Scheggiai lo specchio magico e solo apparentemente indistruttibile che avevano affisso a una parete, con ogni probabilità per ostacolare un mio futuro tentativo di suicidio, rovesciai il cibo dalla finestra, mi spaccai le nocche contro il muro, macchiandolo di sangue, sfondai il letto, rovesciai la toeletta, allagai la stanza lasciando l'acqua del rubinetto aperta per tutta la notte.

Non ci fu niente da fare.

Non vennero neanche le serve, non venne nessuno a trovarmi.

Prigioniera in una cella spaziosa sì, ma soffrivo di claustrofobia, mi sentivo soffocare.

Il devasto dello spazio che mi circondava, le macerie della mia rabbia, l'umidità del mio cuore, la sporcizia e i cocci rotti, erano la rappresentazione esterna di ciò che stavo patendo interiormente.

Avevo perso il lume della ragione, avanzavo a carponi, morsicavo il cuscino per il nervoso, mi raggomitolavo sotto il letto in preda agli spasmi e ai singhiozzi. E poi vagavo, vagavo, percorrevo il perimetro della stanza alla ricerca di una via di fuga, rosicchiavo le unghie fino all'osso, cosparsi di sangue ogni angolo di quella cella, incisi i nomi dei miei amici su una parete, con un pettinino che Khlo si era scordata di portar via.

Era colpa mia, solo colpa mia.

"Se non avessi minacciato la principessa, se non avessi assecondato quel demone bastardo, se non avessi intessuto una relazione con Elijah, se non avessi..."

«Ti prego, dammi la forza, ti prego papà, dimmi cosa devo fare, dimmelo, ti prego.»

Irrequieta. Lo sono stata fin da bambina. Mi era impossibile stare ferma più di due minuti, non bastavano le bacchettate della maestra, a nulla servivano le ramanzine, le buone o le cattive. Io avevo bisogno di aria fresca, di movimento, di persone, di voci e di conforto. Avevo bisogno di spazio, di libertà, di correre a piedi nudi sui prati umidi di brina, di ballare sotto le stelle fino a tarda notte, di lavarmi all'aria aperta, sotto una spessa coltre di astri diamantini.

Il dolore mi stava dilaniando l'anima.

«Papà, ti prego, se vuoi che sopravviva, dimmi cosa devo fare, mandami un segnale...»

Mi immaginai il suo viso, sforzandomi di contrastare quel ricordo traumatico che di continuo faceva capolino nei miei incubi, anche da sveglia. Un sorriso bonario, il naso rosso per l'alcol, qualche dente ingrigito, le labbra spezzate, i capelli nivei, la pelle sciupata dal sole. Ci vedevamo poco, io e mio padre, passavamo poco tempo assieme, sempre di sfuggita.

"Stai diventando troppo bella."

Per lui l'avrei fatto: sarei evasa. Per lui e per i miei fratelli morti in miniera.

Per lui e per Elijah.

Non per il mostro orribile che mi aveva condannato a divenire sua sposa. Per il mio Elijah, il suo sguardo paziente, le braccia forti che mi tenevano stretta contro il suo petto, i baci sul mio collo, le nostre mani intrecciate che faticavano a lasciarsi andare.


"Principessa, se un giorno dovessi venire, se non ti dovessi trovare, se scoprissi che tu mi hai abbandonato, il mio cuore si spezzerebbe a metà."

"I demoni hanno un cuore, Elijah?"

"Sì, sciocca di una mortale. Certo che abbiamo un cuore. Tu ti prendi gioco del mio, ma io so che anche tu mi ricambi."

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