heaven 10.

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Fuori diluviava

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Fuori diluviava.
Prima di quella sera Giulia attribuiva la definizione al senso della vita, allora per lei dell'andamento assolutamente lineare, alla quotidiana tranquillità creatosi con Olimpia.
Al forte aroma di caffè e libri che aleggiava nell'aria grigia di Nikko.
Le trapunte nuove di bucato, profumate e confortanti, divise la sera assieme a lei.
Le giornate passate a bere insieme a Daniel nel solito locale a lato della strada. I rimproveri severi ma di buon cuore di Vale.
Non poteva che avvolgersi candidamente in quel soffice sottofondo di pace e colori tenui che era stata la sua vita fino a quel giorno.
Ora, invece, si sentiva assolutamente persa e disorientata.
Chiuse gli occhi, Olimpia, e quel morbido velluto di cui la sua pelle era formata fremette lievemente sotto al tocco d'inchiostro delle dita di Giulia.
I polpastrelli ruvidi tracciarono con inaspettata delicatezza un semicerchio sul torace nudo e magro di Olimpia, per poi sigillare il disegno compiuto in un bacio. A Holly sembrò che il marchio le fosse stato impresso con ferro rovente e bruciasse come fuoco.
Lei cercò i capelli setosi della mora. Ci intrecciò le dita.
Sfuggivano e scivolavano via veloci dalle sue mani come le inibizioni di cui si erano svestite poco prima, rimanendo incautamente esposte difronte alle proprie persone.
Non vi furono segreti, paure accuratamente sepolte sotto il terreno delle sponde argillose e fragili del tortuoso fiume della coscienza, né cicatrici ignote e minacciose che rammentano, ogni qualvolta le si veda, di aver disseminato sbagli lungo il proprio percorso.
Olimpia abbracciò le labbra di Giulia con le proprie.
Le cercò con timore. Un bacio dalle sfumature di un blu sterile.
La bionda in quegli attimi di bacio tremolante trovò la forza di voler ricostruire una casa, questa volta dalle fondamenta forti e a prova di terremoto, il tetto ben fatto perché non ci piovesse dentro e non si inumidisse e marcisse negli angoli senza che nessuno se ne accorgesse come in quella precedente. Pensò già a come smussare gli spigoli dei mobili e attutire le pareti.
Come creare una fortezza di gommapiuma che le proteggesse dai mali del mondo esterno.
Gli occhi di lei erano stanchi e rossi. Sfiniti, provati dal calore.
"Sono troppo giovane", pensò Olimpia, "troppo giovane per tutto questo." Non badando al fatto che vi erano omega molto più piccoli di lei nella stessa situazione, o forse anche in condizioni peggiori.
Ma il suo pensiero non era da cercare nell'età anagrafica. Provava ad accarezzarle le guance rosate infondendole quel tepore mattutino di cui godeva da qualche ora.
Cercò il suo sguardo, ma la mora non sembrò ben accetta a donarglielo. Aveva gli occhi inumiditi di desiderio e leggermente rossi, brillanti di una luce eterea che solo la bionda le aveva saputo regalare qualche giorno prima. Lei si rese conto che la ragazza che teneva tra le braccia era un'adolescente assillata, imprigionata per puro caso in un corpo di una pittrice squattrinata ventitreenne. Trasognata, e forse anche un po' tremante, Olimpia arrossì.
Le aveva per caso letto nella mente? Aveva percepito quel sentimento familiare che l'aveva sovrastata? Non sapeva cosa dire.
E se l'aveva capito, magari dal semplice gesto di una carezza, a lei stava bene? crearsi una casa; insomma. Vivere una vita come le altre, intendo stare insieme.

Perché se l'avesse accettata, avrebbe potuto godersi una vita normale; essere soggetta alla protezione fondamentale di un alpha. Trovare un posto nella società.
Perché lei non era niente, un ammasso di ossa informi sull'asfalto gelido.
Ma sarebbe stata una vittoria personale se non l'avesse presa sotto la sua ala, perché infondo non sarebbe stata una vita vissuta.
O almeno come aveva voluto lei.
E perciò se ne stava a fissare il soffitto, in stato catatonico, mentre la ragazza dai capelli scuri affondava in lei; per la centesima volta in quei quattro giorni.
A pensarci bene, non si ricordava nemmeno da quanto andassero avanti.
Tuttavia c'era qualcosa di assolutamente meraviglioso in come la prendeva lei, il suo corpo era caldo; umido fino alle viscere. Morbido come l'impasto del pane che sua nonna cercava -anni prima- di custodire in frigo.
Voleva rivelarle che non era un gesto dettato dal calore quello, no.
Le faceva davvero piacere, ma non sapeva come dirglielo.
Eppure lei era sempre stata brava con le parole.
Sentiva il suo lieve tocco sulla sua schiena, il suo respiro regolare batterle fra capo e collo; ed in tutto quel groviglio di gambe d'argento Olimpia si sentì viva.
La voce radiosa della giovane donna le arrivò all'orecchio, le baciò la punta di questo finendo per sorridere al suo stesso schiocco di labbra, strinse la presa sui suoi fianchi.
Olimpia si sforzava di non pensare al futuro prossimo e nemmeno al passato, e immaginava di aggrapparsi a quell'attimo, all'inestimabile tempo presente. Perché lei era tutt'altro di quel che pensava Giulia, era la sua illusione. La bionda non era libera, non era un angelo, non era l'immagine che la mora si era creata in testa; ed era solamente questione di tempo prima che capisse il misfatto.
Ma se fosse stata davvero una bugia quella donna amata, si era detta Giulia, allora se la sarebbe vissuta con tutte quelle sofferenze incluse nel pacchetto.
<<Voglio ridipingere le pareti della stanza.>>
La seconda tirò sù la testa e spalancò gli occhi, poi scosse la testa avanti e indietro, senza speranza. Certo, si aspettava una frase del genere dalla ragazza, ma sicuramente in contesti e soprattutto situazioni differenti.
Forse un po' fu sollevata di averla sentita aprir bocca, si lasciò andare ad una risata fragorosa.
Poi lasciò le labbra posate sulla sua coscia e socchiuse gli occhi, inspirando il profumo pungente dell'omega.

<<Ah sì?>> incalzò Giulia.
<<Sì, proprio così>>
<<Perché dovrei? Non ti piace questa casa?>>
La bionda ignorò la seconda domanda, e come era al suo solito fare si schiarì la gola.
<<Sai Giulia, questa camera è troppo buia e i mobili patiscono l'assenza di luce.>>

Fuori il cielo si illuminò a causa di un fulmine, i rami dell'alberello di limoni sbatterono contro la vetrata della finestra facendole voltare verso quest'ultima. Tutto sembrava statico, fermo in un tempo senza inizio ne fine; e a loro piaceva così.
Giulia in cuor suo sapeva che per lei avrebbe dipinto anche tutta la casa, e Olimpia al contrario pensava che si sarebbe accontentata anche di un piccolo centimetro di parete; scavando dentro l'intonaco.
E che sarebbe riuscita, anche solo per un istante, a fidarsi di quella donna che ora l'accarezzava con timore. Le aveva preso le braccia e le aveva riposte sulla sua testa bionda spettinata, poi l'aveva baciata ancora e ancora arrossandole la bocca.
La sua pelle era madida di sudore, e il suo ventre era spaventosamente gonfio che sarebbe esploso da un momento all'altro come un tumore. Cercando disperatamente ossigeno, un respiro normale in quegli ansiti scomposti. non
Non si concedettero nemmeno una pausa, nemmeno un secondo, intimorite dal futuro e imbarazzate a morte da quel che era stato il loro passato.
Giulia parlò per prima, ora abbracciata a quel corpo che aveva adorato dal giorno zero, e che l'aveva sempre attratta, e a cui riservava una strana e inspiegabile gelosia.
La sua voce eruppe come un fiume in primavera, l'altra l'ascoltò mentre un vortice di pensieri le faceva formicolare la pelle, insieme ad una rinnovata, scalpitante speranza.

<<Non te ne andare, ti prego.>>

Tutto in quella frase faceva
percepire la smania della mora di averla, di stringerla, per una mattina ancora. Svegliarsi con il suo viso sul petto. Tutto in quella frase massacrò Olimpia, moralmente.
Si limitò a posare le labbra sulla sua fronte, come si fa con un bambino con le ginocchia sbucciate e a cui non si può negare una coccola in più, poi si addormentò soddisfatta, nonostante anche lei sapeva per certo, che l'indomani l'odore della sua omega sarebbe già svanito.
<<Fino a quanto puoi restare?>>
Ora la domanda era mutata, più vera, più credibile.
<<Fin quando non cessa il temporale.>>

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