Capitolo 16

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“One of Us is lying...but who?”



Jungkook’s POV


Il cappuccio della mia felpa, impregnato di acqua piovana, gravava gelido sulla mia nuca come il macigno che portavo sul petto.
Ascoltando il suono della pioggia battente, osservavo assorto le grandi mattonelle che componevano uno dei sentieri principali di quel parco, ormai lucide come uno specchio; i riccioli scuri sulla mia fronte riversarono ritmicamente enormi stille d’acqua, che precipitarono veloci fino al granito, schiantandosi e infrangendosi come piccole sfere di cristallo scagliate a terra in un impeto d’ira.
Esattamente quello che stavo cercando di reprimere con tutte le mie forze.
E a quelle gocce copiose si aggiunsero quelle più piccole e amare dei miei occhi, ora annebbiati dal pianto.
Il senso di colpa prese a montare dentro di me sostituendosi alla rabbia, ora implosa, che mi stava divorando le viscere.
«Stupido…» mormorai, alzandomi lentamente dalla panchina, ed avviandomi incerto verso la direzione dalla quale ero arrivato.
O forse verso qualche altro luogo ignoto, lontano da quel parco.
Lontano da quella maledetta città.
Per poco non strappai l’enorme tascone anteriore della felpa spingendovi all’interno entrambe le mani con quanta forza avevo in corpo, quando notai il piccolo cestino dei rifiuti proprio accanto alla panchina che aveva ospitato il mio di dietro per una buona mezz’ora.
«Stupido…STUPIDO! STUPIDO IDIOTA!» ringhiai, accanendomi con violenti calci sul metallo già ammaccato del piccolo bidone. La potenza di quelle pedate causò il distacco del cestino dal suo supporto -un paletto striminzito e smangiato dalla ruggine, gocciolante insieme alla pioggia-, che cadde rovinosamente spargendo bottiglie di plastica, cartacce varie e persino gli avanzi di un fast food sul sentiero e sul prato circostante.
Nel cupo silenzio di quel grande parco solitario, rotto soltanto dal ticchettio incessante di quella malinconica pioggia, le mie urla lasciarono il posto dapprima ad un frastuono infernale, immediatamente rimpiazzato dal cigolio sommesso di una bicicletta in lontananza.
Una persona decisamente più folle di me.
Ansimante e rosso di rabbia alzai lo sguardo verso la fonte di quel suono che, per qualche ragione inspiegabile, mi aiutò a riacquistare quel minimo di compostezza che mi era rimasto: al di là del prato, un uomo di corporatura massiccia, e con indosso una vistosa mantella gialla, stava percorrendo, in sella alla sua sgangherata bicicletta arrugginita quanto il bidone dell’immondizia, il sentiero d’ingresso del parco.
Malgrado non potessi scorgerne il volto, seminascosto dal cappuccio e da una mascherina chirurgica -forse aveva il raffreddore-, nella mia mente quella figura aveva un non so che di familiare.
Ridussi gli occhi a fessura, cercando di concentrarmi meglio su quell’individuo che, inaspettatamente, svoltò la curva, dirigendosi lentamente proprio nella mia direzione.
Cercando di mantenere in linea retta il suo trabiccolo, abbassò la mascherina turchese prima di puntare il suo sguardo stanco e distratto nel mio.
«Dottor Ki!» gridai, riconoscendo l’aria austera, resa ancor più severa dalla sottile montatura metallica.
L’uomo sbarrò gli occhi e non appena sentì urlare il suo nome nell’aria umida e silenziosa del parco, sterzò bruscamente, nell’intento di avviarsi verso la direzione opposta.
Il suo maldestro tentativo si concluse con una goffa caduta…all’incirca com’era accaduto per il bidone.
«Dottor Ki» ripetei, correndo verso il povero sciagurato, ingarbugliato nella sua carretta.
«Faccio da solo, lasci perdere!» si stizzì, lanciandomi un’occhiata inceneritrice e sbrogliandosi da quel pasticcio senza troppe difficoltà.
Mi spostai, affrettandomi a radunare i fogli bianchi fuoriusciti dalla sua cartella, sparsi alla rinfusa sulla stradina lastricata: l’acqua ne aveva rapidamente impregnati alcuni, rendendoli grigi e pesanti.
«Mi dispiace…» mormorai risentito, ponendo al medico quel poco che ero riuscito a salvare.
«Le ho detto di farsi gli affari suoi! E vada a casa: con questo tempo rischia una broncopolmonite!» m’intimò secco, inforcando, con il piglio di un ranger, la sua bicicletta, uscita miracolosamente indenne dall’incidente.
«Signor Ki, aspetti!» tentai di nuovo, correndogli disperatamente incontro; il medico, tuttavia, sembrò accelerare -per quanto possibile- le pedalate, risistemandosi alla meno peggio il suo sottile velo facciale.
Non mi rimase altra scelta che pararmi davanti a lui e il mio gesto avventato per poco non lo fece capitombolare a terra una seconda volta.
«Signor Ki: la prego di ascoltarmi!» m’imposi, spalancando le braccia per enfatizzare il mio gesto.
Lo stridio dei freni riecheggiò acuto tra gli alberi tristi.
«È forse pazzo?!» starnazzò lui in risposta, gli occhi fuori dalle orbite per lo spavento.
«E per lei sono il “Dottor” Ki».
Avvampai, mortificato da quella precisazione; quindi, mi schiarii la voce, sperando che quel medico tanto intransigente fosse pronto ad accogliere la mia richiesta.
«Signor- Dottor Ki» riprovai, abbassando lo sguardo.
Inspirai profondamente…
E vomitai le parole come se mi avesse piazzato un’aspirapolvere in gola.
«Non posso farlo» concluse risoluto quando ebbi terminato. Ma ero assolutamente certo che la sua determinazione non fosse accesa quanto la mia.
«Dottor Ki, la scongiuro! Mia sorella non può restare lontana dal suo lavoro per troppo tempo: è quel che più ama al mondo…» improvvisamente, mi accorsi di quanto la mente contorta di quell’uomo massiccio fosse in realtà fragile come un castello di carte.
«Perché lo ha fatto?» domandai a bruciapelo.
L’esitazione del primario mi lasciò sospettare che le sue ragioni fossero prive di fondamento.
«Non sono affari suoi. Vada a casa» disse, cercando di superarmi.
«Voglio sapere perché ha deciso di sospendere mia sorella…e la sua amica» domandai, questa volta più diretto.
«Perché, se lo avesse fatto per causa mia, spetta solamente a me porre le mie più sincere scuse a lei e a tutto il personale della clinic-»
«Non è solo per colpa sua che ho deciso di sospendere le ragazze» ammise, distogliendo lo sguardo imbarazzato.
«E allora perché?».
Ancora una volta, ricevetti in risposta nient’altro che incomprensibili mugolii.
«La prego! Mi dica quando potranno rientrare» supplicai, tentato ad inginocchiarmi davanti alla sua bicicletta.
Forse se gliel’avessi portata via, avrei potuto coglierlo di sorpresa, costringendolo a confessare…
Certo!
E magari avrei anche attirato qualche volante della polizia che mi avrebbe rincorso a sirene spiegate per mezza metropoli fino all’appartamento.
«D’accordo, senti» sbottò, e quel suo tono confidenziale mi lasciò intuire che per quel primario dall’aria imponente non fossi nient’altro che uno stupido ragazzino viziato.
Repressi a stento la rabbia che provai nell’ammettere a me stesso quella -seppur possibile- realtà e ascoltai la sua risposta che giunse dopo alcuni interminabili secondi di assoluto silenzio, rotto solamente dal frastuono del traffico in lontananza, attutito dalla pioggia ormai leggera.
«Verranno riammesse solamente quando il vostro amico verrà dimesso. Non un giorno prima».
Rielaborai quella sentenza più e più volte.
«Non ha senso!» sbottai all’improvviso, maldicendomi per non esser riuscito a frenare quelle parole.
«Intendo…» cercai di recuperare.
«Non potrebbe semplicemente affidare la mansione a qualcun altro? Voglio dire, ci sono moltissimi medici lì alla clinica»
«Non se ne parla» disse semplicemente scuotendo la testa, forse più per eliminare le goccioline di pioggia che si erano depositate nelle depressioni del suo impermeabile giallo.
«La mia decisione è irrevocabile, non insista.» concluse autoritario.
Qualcosa, però, lo fece esitare, costringendolo a rimanere fermo sul posto.
Lentamente, calò la mascherina fin sotto il mento voltandosi verso di me, ora alle sue spalle; il suo profilo si stagliava severo e coriaceo, in netto contrasto con l’oscurità umida che permeava il bosco circostante.
«Qualsiasi sia la sua proposta, la tenga per sé. Neppure le sue scuse più sincere sarebbero sufficienti a farmi cambiare idea».
Quell’affermazione mi colse di sorpresa.
E tanti cari saluti alla mia teatrale improvvisazione.
«Davvero non esiste alcun modo per farmi perdonare, Dottore? Solo questo vorrei sapere» implorai un’ultima volta.
E qualcosa sembrò sciogliersi in quell’anima dura che doveva averne passate davvero molte.
«Ripensandoci, forse un modo ci sarebbe» mormorò, il suo sguardo di onice puntato maliziosamente nel mio.
«La voglio nel mio ufficio domani mattina, alle dieci in punto. Chiaro?».
«Riammetterà mia sorella, dunque?»
«Solo se sarà in grado di soddisfare la mia richiesta».
Con quelle parole si congedò, lasciandomi solo nel parco illuminato dalla fioca luce dei lampioni.
Sì, sarei stato disposto a qualunque cosa pur di aiutare Seon.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Oct 08, 2022 ⏰

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Jeong|| KSJDove le storie prendono vita. Scoprilo ora