11. Le onde che si infrangono su di noi

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Simone amava il Natale. Quando era bambino, e la madre viveva ancora con loro, dedicavano la mattina del venticinque dicembre a lunghe passeggiate in strada. Era quello il momento più felice dell'anno, anche più del compleanno, che avevano finito per non festeggiare più senza spiegare nulla al piccolo Simone. La mattina di Natale andavano al parco vicino casa, dove spesso e volentieri Babbi Natale di ogni età si piazzavano offrendo caramelle e dolci ai bambini in cambio di piccole offerte. Simone sapeva che Babbo Natale non esisteva, gliel'aveva detto Riccardo, un suo compagno di classe quando aveva solo cinque anni. Ci aveva pianto per una settimana, di nascosto, ma poi aveva accettato la dura verità. Tuttavia, adorava vedere il sorriso della madre mentre indicava i goffi signori vestiti in rosso e con le barbe legate alle loro facce. E adorava vedere il padre fingere di avere discussioni serie con loro. - Signor Babbo Natale, come si è comportato questo bimbo qui? -, chiedeva, toccandogli la testa piena di ricciolini. Simone fingeva di crederci, e un po' si lasciava cullare da quella magia che durava un giorno all'anno. In quelle ore poteva fantasticare, poteva sognare un mondo lontano dove piccoli folletti si univano insieme per realizzare oggetti al solo scopo di rendere felice qualcuno. Amava il Natale perché era quasi sempre un giorno soleggiato, perché le persone erano tutte immotivatamente felici e gentili con il prossimo. Come i suoi genitori. Era l'unico giorno dell'anno in cui non si urlavano contro, l'unico giorno dell'anno in cui fingevano di essere una famiglia felice. Allora Simone, con le mani strette ad entrambi, li guardava dal basso dei suoi pochi metri, sorridente, con gli occhi lucidi di chi ha ancora un cuore leggero. E saltellava gioioso vedendo gli occhi liquidi della madre sorridere a quelli stanchi del padre. Chiudeva gli occhi e si sentiva felice.

Aprì gli occhi dopo essersi sciacquato la faccia con l'acqua fredda.

Sentì un brivido quando alcune gocce gli scesero lungo il collo, bagnandogli la felpa.

Faceva freddo e fuori il clima era umido. Era sicuro che avrebbe piovuto.

Si guardò allo specchio, mentre con un asciugamano si apprestava ad asciugare il volto, e rimase per alcuni secondi a contemplarlo.

Quelli lucidi di quando era un bambino avevano oramai lasciato il posto ad un paio di occhi arrossati. Le occhiaie sembravano essere macchie di grafite sul suo volto.

Non aveva dormito nemmeno quella notte.

Era passata una settimana senza avere notizie di Manuel. E forse era meglio così.

Simone sapeva che era meglio così.

Tuttavia, l'immagine di lui avvolto tra le lenzuola di Alice non faceva che riapparire ogni volta che il suo sguardo cadeva sulla tela custodita in camera. L'aveva messa in un angolo, al buio, dove né la luce artificiale, né quella naturale poteva toccarla. Eppure, lui la vedeva. La vedeva sempre.

Vedeva i suoi occhi guardarlo a notte fonda dopo aver fatto l'amore. Era quello il momento in cui gli sembrava più vulnerabile. Manuel gli si accoccolava sul petto, stretto tra sue braccia larghe e restava con la testa alzata ad osservarlo, gli occhi spalancati.

Ma tutto questo non c'era più, e Simone stava imparando ad accettarlo.

Stava seguendo il consiglio di Chicca, che non faceva che ripetergli che lui veniva prima di tutto, che doveva amare se stesso e rispettarsi.

Ma non era semplice, soprattutto quando era la stessa ragazza a notare come la luce di Simone si fosse spenta, di come avesse perfino smesso di disegnare.

- Quando ti sentivi con Manuel disegnavi sempre - gli aveva detto una volta, accarezzandogli i capelli mentre Simone era steso sulle sue gambe.

La vibrazione di un cellulare lo ridestò dalle sue riflessioni.

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