12. L'inverno porta via le lucciole

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tw: slur, violenza, utilizzo di droghe

Passarono due settimane, forse tre.

Pensandoci, anni dopo, Simone avrebbe ammesso che quel periodo, in verità, non fu che una parentesi silenziata della sua vita. Un susseguirsi di eventi incontrollabile. Lui non aveva preso parte alla sua vita. Piuttosto, l'aveva subita.

Nei primi giorni, si era svegliato quasi come un fantasma nella sua abitazione, tinta d'un tratto di una tenue sfumatura di grigio. Dava da mangiare ai gatti, preparava qualcosa da ingerire, poi si dirigeva in Accademia dove lo aspettava Chicca.

Con lei, le cose prendevano sempre un po' di colore. Riusciva a nominarlo, ogni tanto. Riusciva a disegnare qualcosa, accanto a lei. Ma tutto quello che finiva per scarabocchiare sui fogli vuoti veniva strappato con violenza dal blocchetto, appallottolato, e gettato via.

Poi tornava a casa, dando qualche calcio alle foglie secche che ricoprivano ancora le strade, e ripensava alla sua testa abbassata, ai ricciolini che lo coprivano come uno scudo. Era solo un'immagine rapida, un pensiero intrusivo che si faceva largo nei meandri della sua mente senza chiedere il permesso.

Lui allora la scacciava via, indossava le cuffie e ascoltava musica jazz. Seguiva le note che si rincorrevano una dietro l'altra e, così facendo, lasciavano una scia luminosa. Lui quella scia la poteva vedere, mentre, col capo chino, alternava un piede dopo l'altro senza nemmeno badare alla strada o al traffico.

E con quella scia tornava a vedere la linea di mare, blu, lontana, che squarciava la sua vista in due parti. In un attimo si dissolveva, per poi ricomporsi in tanti piccoli fiori di elleboro mossi dal vento. Tremavano, quasi avessero freddo, e vibrando producevano un suono simile a quel tintinnio della batteria che, leggera, scandiva i tempi della musica.

Quei fiori tanto bianchi da sembrare un cielo stellato, li rivedeva intorno ai loro corpi ma senza mai sfiorarli, o giù, nell'avvallamento erboso, riunirsi in macchie chiarissime. Tante piccole galassie che punteggiavano la terra. L'elleboro, lo stesso che li circondava senza mai toccarli. Tanto bello, quanto letale.

Allora Simone stringeva forte gli occhi, strofinava via i pensieri con una mano e riprendeva ad ascoltare il racconto che quelle note gli stavano sussurrando.

Provava a sostituire gli occhi di Manuel con quelli chiari di Samuele, le sue lacrime con le carezze che l'altro gli procurava.

Una settimana gli era bastata per capire che al di là di Manuel c'era un mondo di persone pronte a volergli bene sul serio.

Proprio come Samuele.

Si erano incontrati per quel caffè, alla fine, solo qualche giorno prima. E gli aveva fatto un'ottima impressione. Si era dimostrato simpatico, carismatico, intelligente. Non aveva avuto timore ad accarezzarlo davanti agli altri.

Così i giorni passarono, dieci, undici, poi dodici, e alla fine Simone smise di contarli.

Inizialmente ne aveva tenuto il conto. Una linea alla volta, Simone li aveva segnati tutti su un vecchio disegno fatto a Manuel. Un tratto dopo l'altro, mentre vedeva aumentare le distanze che li separavano.

Poi, semplicemente, aveva smesso di farlo.

Aveva smesso anche di pensarci con la stessa insistenza. C'erano dei momenti, mentre si trovava a letto, in cui si era persino chiesto se fosse tutto vero, ciò che c'era stato. Se non fosse stato solo un sadico gioco della sua testa. Guardava il soffitto e vedeva quelle macchie di umidità aumentare.

Non sono stelle, si ripeteva, sono solo delle macchie di cui sbarazzarmi.

E la voce di Manuel, la mano alzata ad indicargliele, tutto sembrava sfumare in un'eco lontana. Se provava ad allungarsi verso di lui, vedeva la sua immagine dapprima deformarsi per poi dissolversi nell'aria come fumo. Al suo posto gli occhietti chiari di un gatto nero lo scrutavano curioso.

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