E ti ho posato la punta della lingua umida dentro all'orecchio, quasi ho raggiunto il timpano. Ti ho strillato fino al cervello semplicemente esalando una carezza di fiato. Tu hai sospirato, avevo già i pantaloni abbassati. Il confessionale era davvero stretto, stavamo scomodi. Non riuscendo a star fermo, battendo troppe volte la testa contro il soffitto basso della piccola stanzetta di legno, hai interrotto il nostro bacio appassionato, prendendomi per le spalle e voltandomi forzatamente. Tenevo il viso poggiato contro la parete di velluto, spostando piano con il tallone sinistro la tenda viola della cella in cui eravamo rifugiati. Non ero mai stato in una chiesa di notte. Non avevo mai fatto l'amore in un luogo sacro, in ora notturna. Gemevo con irrequieta impazienza, aspettavo te, aspettavo quel corpo, il tuo fallo, il mio indurirsi tra le tue mani; solo Dio sa quanto avevo atteso quella morte così dolce. Il dolore della penetrazione non mi intimidì, tu mi abbracciasti preoccupato, coprendomi di baci leggeri l'hai detto.

«Ti amo.» spingendo con mascolinità mi rubasti troppe urla. L'erotismo del senso del potere, del partecipante attivo, fidati, l'ho percepito soprattutto io, che ero quello di sotto. Non succube, sottomesso, ma concesso. Un privilegio simile è diamante. Ti ho pregato di venirmi dentro, e quella preghiera è stata talmente forte che la casa del tuo signore non era preparata. Sei rimasto dentro di me anche quando ti sei riversato nell'orgasmo. Mi hai stretto la mano destra per tutto il tempo, ed io, respirando faticosamente con un sorriso soddisfatto, ti ho baciato il dorso ed ho mormorato: «Padre ho peccato.»

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