Capitolo 7- Mr. Miles Uomo Perfetto?

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Ellen

Ellen.

Per la prima volta ha usato il mio vero nome, e non nomignoli a doppio significato per me e qualsiasi ne abbiano per lui.

E allora perché sembra così diverso pronunciato dalle sue labbra?

Perché mi sembra così familiare?

Tutto il caos nella mia testa si interrompe, non per una qualche illuminazione divina, ma perché Even ha la brillante idea di mettere improvvisamente a lavoro il cavalletto per sostenere la moto, facendola inclinare, e di conseguenza far fare la stessa cosa a me cascando in avanti come una vera idiota.

Cerco di aggrapparmi al manubrio, chiudendo gli occhi preparandomi per cadere faccia a terra.

Invece, le mie mani si aggrappano a delle braccia, avvolte in un involucro di pelle e mi stringo di più a quel sostengo, e poi, apro gli occhi.

Mi guarda, ma non ho il coraggio di farlo a mia volta, così fisso più in basso, puntando in un posto ancor peggiore: le sue labbra, che notando il mio disagio o confusione, iniziano a muoversi. Pronunciando parole inattese.

«Se continui a guardarmi in questo modo...» sobbalzo, ma rimango con lo sguardo fisso, «Potrei pensare che ti piaccia più del dovuto incartarti a guardarmi, gåte.» sussurra ammiccando a me che lo guardavo dormire senza smuovermi di mezzo millimetro fino a quando non ha spalancato le palpebre sveglio come non mai. Dio mio, gente, ci si mette a puntino per farti ricordare le figure di merda più ambite nel podio.

Il mio fiato si spezza, avverto il petto fare su e giù a ripetizione, in continuazione, contro il suo. Riporta la sua attenzione di nuovo ai miei occhi - dopo essersi soffermato un po' più in basso come me prima -che si incatenano subito a quel verde estivo e quella lastra di ghiaccio che, come una doccia fredda, mi riporta alla realtà.

Cerco di scendere goffamente dalla moto, mentre lui si lascia squassare da una lieve risata che mi entra dentro.

«Forza, andiamo.»

Aspetta, aspetta. Cos'è che dobbiamo fare? Dov'è che dobbiamo andare? Ave a me, Maria e tutti i Santi.

Mi sporgo di poco sul muretto per vedere al di là di esso, dove è la direzione del suo sguardo.

Oh, oh, se lo può scordare. Togliere dalla testa. Distruggere l'idea che io possa essere pronta a parlare con qualcuno con la batteria sociale scarica e senza alcun preavviso di minimo una settimana e mezza per ricaricarla il necessario e il massimo di mezz'ora a cui è disposta ad arrivare.

Si è già fatta sera, e più in lontananza c'è un falò con almeno una decina di persona attorno e altre alzate con qualcosa da bere in mano che chiacchierano e ballano. Ho già detto che non sopporto le persone? Soffro di memoria a breve termine, chiedo venia, e per questo potrei affermare la mia affermazione all'infinito e oltre.

«No.» pianto i piedi per terra.

«No?» si volta a guardarmi perplesso, con la fronte aggrottata. Non dovrei essere io quella perplessa qui?

«Non posso.»

«Perché non puoi?»

Perché non conosco nessuno.

«Perché devo tornare a casa.» Bugia.

«Siamo appena usciti.» mi fa notare.

Vero. Cavolo!

«Ehm... io-»

Abbasso lo sguardo, ma lui prontamente mi alza il mento con due dita, riavvicinandoci sempre di più.

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