Capitolo 2: Lakebury

113 17 92
                                    

Era molto interessante come lo stesso suono potesse suscitare reazioni così diverse a seconda della situazione.

Solitamente Griffin adorava la sua suoneria. Era una delle sue canzoni preferite (Anti-Hero, di Taylor Swift) e ogni volta che qualcuno lo chiamava al telefono aspettava qualche secondo a rispondere, perché gli piaceva ascoltare la melodia.

In quel momento però stava leggendo. Perciò, quando il piacevole silenzio della sera venne infranto e Taylor iniziò a cantare di come fosse difficile tifare sempre per l'antieroe, l'unica emozione che Griffin provò fu una profonda irritazione.

Sbuffò e si rassegnò a mettere da parte il libro. Rotolò sull'altro lato del letto per dare un'occhiata al nome sullo schermo, ma non fece in tempo a controllare che il telefono smise di suonare. Neanche due secondi dopo aveva un nuovo messaggio.

Maeve: Hai intenzione di abbandonare quella caverna oscura che chiami casa e unirti a noi?

Maeve: Stiamo per andare a fare un giro in città.

Griffin controllò l'orario sul telefono.

Tu: Sono le undici di sera.

Maeve: Sì, e allora? Ci vuole mezz'ora ad arrivare. Dai, ci divertiremo! Facciamo un salto al bar.

Il suo sguardo slittò senza volerlo sul libro che stava leggendo fino a due minuti prima. Mancavano una cinquantina di pagine e lui stava per scoprire se l'assassino del fratello del protagonista era sul serio il padre come aveva immaginato. Probabilmente c'era qualche dettaglio che gli era sfuggito, come al solito. Ma ora doveva sapere.

Tu: Ora non posso. Vi raggiungo più tardi. Vi chiamo quando esco di casa.

Maeve sapeva che la traduzione corretta di quell'affermazione era: "Probabilmente non vi raggiungerò affatto".

Maeve: D'accordo, ma sbrigati. L'autobus passa tra dieci minuti.

Griffin, dal canto suo, era ben consapevole che con ciò Maeve intendesse dire: "Salirò su quell'autobus con o senza di te, fosse l'ultima cosa che faccio nella vita."

Senza aggiungere altro spense il cellulare e si tuffò sul suo giallo, ricominciando a leggere.

I suoi amici non se la prendevano se ogni tanto -la maggior parte delle volte, in realtà- dava loro buca. Sapevano che non era nulla di personale. A Griffin piaceva stare con loro, gli piaceva davvero. Era solo che c'erano momenti in cui preferiva fare altro, come finire di leggere un libro particolarmente avvincente o completare un disegno che aveva in testa da giorni: avrebbe potuto lasciare il giallo da parte e uscire da Lakebury insieme a loro, ma così avrebbe trascorso la serata a tormentarsi su chi diavolo fosse l'assassino del romanzo.

Era più forte di lui. Semplicemente c'era un tempo per stare in compagnia, e un tempo per farsi i fatti propri. Ma non per questo Griffin preferiva l'uno all'altro.

Maeve questo lo sapeva, forse perché lo conosceva da quando aveva accennato i suoi primi passi ed era stata presente alla sua prima caduta. Crescendo, Griffin non si era lasciato intimidire dal carattere turbolento e aggressivo della ragazza: sapeva che dietro quella facciata si nascondeva più gentilezza di quanta Maeve fosse disposta ad ammettere, e andava bene così. Tutti avevano dei volti nascosti. Gli esseri umani erano come matrioske.

Griffin dubitava che qualcuno sarebbe mai riuscito a scorgere il vero volto della sua. A malapena lo conosceva lui.

Una ventina di minuti dopo chiuse il libro con un colpo secco, sbuffando. Ovviamente aveva azzeccato il coinvolgimento del padre, ma in realtà il vero assassino era la madre. Il padre era solo un complice.

Chissà perché, c'era sempre un dettaglio che gli sfuggiva. Le sue deduzioni non erano mai complete. Era frustrante.

Andò a riporre il romanzo nella libreria, e nel farlo notò la cosa peggiore che avrebbe mai potuto balzare alla sua attenzione: sua madre aveva preso in prestito tre dei suoi thriller e li aveva rimessi al posto sbagliato, andando così a creare una discrepanza nell'immacolato ordine dei suoi scaffali che se non fosse stata sistemata all'istante avrebbe rischiato di distruggere completamente il benessere mentale di Griffin, e per estensione il mondo intero.

Oh, merda.

Tirò fuori i libri incriminati e li reinserì al loro vero posto. Tirò il fiato. Pericolo scampato.

Dopo essersi assicurato che niente nella sua camera fosse in disordine, diede un'occhiata fuori dalla finestra: il cielo era più nero che mai e le stelle sembravano tante piccole lucciole che giocavano alle belle statuine con la luna. Un altro aspetto che gli piaceva di Lakebury: laggiù erano lontani dalla città e dal suo inquinamento luminoso, e ogni notte nell'alzare lo sguardo al cielo poteva immaginare di vivere secoli e secoli nel passato, quando le costellazioni erano venerate come dèi e spettacoli come quello erano la normalità.

Era quasi mezzanotte. Una delle regole di suo padre era "non uscire da Lakebury dopo la mezzanotte". Ma sul gironzolare all'interno di Lakebury nessuno aveva mai detto nulla.

Perciò Griffin andò a cambiarsi, sostituendo la sua attuale canottiera nera con una maglia a maniche corte dello stesso colore, con disegnate sopra due ali spiegate, una di un angelo e una di un demone. Prese le chiavi e il cellulare e uscì di casa, non prima di essersi assicurato di aver spento il gas.

Amava passeggiare da solo per le strade di Lakebury. Sapeva che lì dentro era perfettamente al sicuro, e il silenzio della notte era un'ottima compagnia per le sue riflessioni.

Il fatto era che Griffin pensava parecchio. D'altronde, se trascorri gran parte della tua vita senza dire più di tre parole consecutive, non ti resta molto altro da fare.

Pensare era più semplice che parlare: non dovevi preoccuparti dell'intonazione della voce, per dirne una. Chissà perché, ogni volta che apriva bocca le parole sembravano appartenere a qualcun altro, come se stesse leggendo un copione ma fosse un pessimo attore.

A quell'ora della notte le strade di Lakebury erano deserte: non c'erano molte persone in quel piccolo angolo di mondo e sicuramente per molte di loro la serata era ormai finita o, nel caso dei suoi amici, appena iniziata.

Nemmeno con loro Griffin parlava molto. Almeno non quanto avrebbe voluto. Era una questione di carisma, credeva: alcuni dei suoi amici sapevano attirare l'attenzione senza la minima fatica, erano in grado di farsi sentire anche quando sussurravano. Lui doveva ripetere le stesse cose almeno tre volte prima che qualcuno si rendesse effettivamente conto che aveva parlato. Non era colpa loro, però: semplicemente non lo sentivano. Per quanto ostinatamente ci provasse, per quanto ossessivamente lo desiderasse, non riuscivano a sentirlo. Non era colpa di nessuno se le loro orecchie e la sua voce non erano compatibili.

E allora Griffin stava in silenzio.

L'ingresso di Lakebury era delimitato da un immenso cancello verde scuro, del genere che si potrebbe immaginare davanti ad un antico maniero: le sbarre erano sottili e svettavano verso il cielo, scoraggiando i bambini particolarmente avventurosi o i malintenzionati che avrebbero potuto farsi venire la folle idea di scavalcare. Per aprire il cancello era necessario conoscere il codice del totem, e quello era a disposizione solo dei residenti.

Là dentro, il resto del mondo non aveva il permesso di entrare.

A Griffin piaceva stare lì: c'era un vecchio frassino vicino al cancello, alla cui ombra trascorreva le ore a leggere o a disegnare. Di notte veniva spesso lì, si stendeva sull'erba e ammirava le stelle.

Così decise di fare anche stavolta. Era pieno luglio, e il pensiero della fine delle vacanze ancora lontano: era quel periodo in cui sembrava che l'estate non sarebbe mai finita, e che l'unica cosa realmente importante di tutta la sua vita fosse quel cielo stellato sopra la sua testa.

Niente genitori pronti a fargli la ramanzina. Nessuno che lo chiamasse al telefono interrompendo la sua quiete.

Era tutto.

Assolutamente.

Tranquillo.

«AIUTO!»

La Canzone del SilenzioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora