55 d. C.
Nel deserto sopra le alture di Siria, nella canicola del mattino, Titus Flaccus sudava come un cane – certo, come un cane è difficile ma il muso era quello – sotto l'elmo di ferro.
«Mercante!» urlava ogni tanto, sollevando a stento la faccia dal crine del cavallo. «Mercante! Quanto manca a Damasco?»
Il mercante, avvolto nei suoi panni di lino, il viso nascosto dal velo, voltò il cammello per guardarlo.
«Ancora molto, legionario» gli rispondeva ogni volta. «Vedi, laggiù a sinistra, il lago di Genesaret e la città lì accanto? Siamo ancora lontani» aggiunse, per una volta.
Il cammello, ondeggiante sotto di lui, muggiva e ruminava. Cioè, non è che quel belato fetente fosse proprio un muggito, ma al verso d'un uro ci si avvicinava.
Flaccus osservò il borgo di fango cotto e palme da dattero sotto di loro, e inspirò l'assente umidità dell'aria. «Mercante, perché non abbiamo fatto la strada per quel villaggio là? Ho bisogno di bere.»
Il mercante riprese a far trottare il cammello. «È semplice, legionario. Perché loro non hanno bisogno di noi, né io ho bisogno di loro.»
«E di chi hai bisogno, che a me non sembra proprio?»
«Di te.»
Titus Flaccus inspirò. «Non abbiamo più acqua.»
«Conserva il fiato. Arriveremo presto a un'oasi.»
Così, di nuovo, ancora in marcia sotto il torrido disco di fuoco della canicola.
«Mercante...» ricominciò poco dopo Titus Flaccus, «Penso che tu mi hai fregato. Questo lavoro non vale per niente i dieci denari che mi paghi al giorno.»
«Credimi, legionario, il tuo sforzo vale fino all'ultimo asse. Ora copriti la testa col mantello o creperai di caldo. Andiamo.»
Titus Flaccus non era per niente convinto di questo, e forse a dirglielo erano i massi sbrecciati che era costretto a schivare lungo la strada, o forse più la polvere di rena che gli si incollava alla gola. Non era stata una buona idea abbandonare il suo castro a Yerushalaym per seguire quel pazzo fottuto con le sacche piene d'oro e d'argento fin lì, dato che già gli aveva mentito dicendogli che presto si sarebbero accodati a una qualche merdosa carovana e invece non l'avevano mai fatto. E forse l'idea migliore sarebbe stata spaccarglielo in testa, uno di quei sassi tra gli zoccoli del suo ronzino, mentre dormiva, e una volta sfondatogli il cranio scapparsene nella frescura della notte con tutto il soldo che riusciva a infilare nella saccoccia. Ma per qualche motivo del cazzo ― Titus Flaccus se lo domandava ogni cambio di veglia e non trovava risposta ― ancora non l'aveva fatto. E aspettava che gli accendesse il fuoco per spaventare fiere e predoni, e lo lasciava cacciare qualche lepre del deserto, e guardando le stelle, dopo sei giorni, ancora gli diceva che non avevano concluso il loro viaggio.
E intanto crepavano, di sete di caldo, anzi lui crepava, perché a quel dannato mercante e al suo cammello pulcioso e fetente la sete ed il caldo non sembravano toccarlo.
«Mercante!»
«Silenzio, Titus Flaccus, siamo quasi arrivati.»
Titus Flaccus sfiatò un rantolo e trovò il terreno.
Il cavallo l'aveva calciato o il suo elmo era rotolato lontano? Non capiva, stordito dal clangore dei paraguance cozzati contro il naso. Sgomitò contro la rena e si porto due dita sulla fronte che premeva e premeva e si gonfiava a ogni battito del cuore. Aveva dolore, e l'umidità che scendeva tra gli occhi e s'era raccolta su indice e medio gli dava la nausea.
Leccò via il sangue, succhiò le dita sporche e arrossate pur di dar sollievo alla gola.
«Mercante...» mugolò, e l'uomo venne a coprirgli il sole e si chinò a raccoglierlo.
«Dimmi: quanti anni hai, legionario?» gli chiese porgendogli la mano.
«E che ne so, più di quaranta credo...» e gli allungò il braccio.
Dal collo dell'uomo, tra le pieghe della veste, s'era fatto strada un pendente, un pezzo di legno appeso a uno spago.
«E di dove sei, compagno?»
Titus Flaccus non rispose, era ubriaco dell'odore di cuoio che il mercante emanava. Gli ricordava qualcosa quel legno che cascava dal petto, un colle visto anni addietro, tre pali, una lancia e del fiele.
«Roma, vero?»
«Come lo sai?»
«Ben prima che Nerone diventasse principe e console?»
Titus Flaccus ancora non rispose. Aveva dimenticato i tempi in cui elemosinava l'annonaria e sputava sui cavalieri ― colle loro grosse dita inanellate d'oro e pietre e le toghe bordate dalle strette strisce purpuree dell'angusticlavio ― negli spalti più in basso, quando entravano i gladiatori.
E ben più importante, Titus Flaccus Longhinos ancora non sapeva che Nerone s'era fatto console.
«Mercante, ma tu... chi sei?»
L'uomo lo sollevò docilmente, come si fa con un agnello, e si mise sotto la sua spalla.
«Il mio nome è Saùl, compagno. E ora andiamo, la salvezza è a portata di mano.»
E un passo alla volta, guidandolo col braccio, lo portò al lago.
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Foto di Raz Jacob
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Apeimeron. Racconti e poesie
Short StoryDal greco "di infiniti giorni", raccolgo qui racconti autoconclusivi e quelle poche poesie che scrivo, in maniera sparsa e senza soluzione di continuità.