CAPITOLO CINQUANTUNO

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Capitolo Cinquantuno: le quattro mura

"Non esiste paura nel buio; la vera paura sta in ciò che il buio nasconde."
- Taradas Bandyopadhyay

Shahrazād si era trovata nel buio, completamente circondata. In tutta la sua vita, l'assenza della vista non era mai stata così invalidante e stressante. Sentiva, tutto in torno a sé, un turbinio di odori diversi. Anche concentrandosi, non avrebbe saputo riconoscerli tutti.

Così aveva portato le dita alle palpebre chiuse, massaggiandosele. Una parte di lei aveva avuto la speranza che, almeno in quel momento, sarebbe stata in grado di vedere. Il dio le aveva fatto quel regalo già una volta, in passato. Forse era lei l'egoista ad aspettarsene un altro.

"Ecco la tua debolezza," le avevano sussurrato all'orecchio. Shahrazād aveva creduto che la voce appartenesse a Sover, ma a ripensarci, sembrava un coro. Possibile che si trovasse in compagnia dei sette peccati capitali?

Inspirando profondamente dal naso, aveva capito che no, non erano loro. Niente affatto. L'aria del luogo in cui si trovava non era rarefatta o pesante, tantomeno ne avvertiva l'energia cupa e oscura che i sette emanavano con così tanta facilità.

C'era solo pace e nient'altro. Il vuoto che tutto inghiotte le faceva compagnia; se la cullava tra le braccia, assopendola. In qualche modo, le pareva che volesse dirle di rimanere e di calmarsi. Avrebbe cercato risposte dopo...dopo cosa?

Shahrazād si era schiarita la gola con un secco colpo di tosse, cercando di darsi un tono. "La mia debolezza è la mia cecità?" Le era parso ironico, in realtà. Non aveva bisogno che qualcuno glielo facesse notare, perché quella era stata tra le poche consapevolezze che per tutta la vita aveva stretto a sé.

Per anni si era ripetuta che conoscere i suoi limiti l'avrebbe aiutata. Se non altro, non avrebbe mai sofferto per aspettative irrealistiche e irrealizzabili. Sapeva di essere cieca e sapeva che era uno svantaggio, così si era sempre comportata a seconda di ciò.

La voce, però, si era limitata a esalare una risata sguaiata, come se avesse appena sentito la risposta più sciocca della sua vita. "Agli umani piace pensare che due cose siano sinonimi, anche quando non lo sono." Aveva riso ancora, ma questa volta con un pizzico di rassegnazione a tingerne il tono.

Adesso, la ragazza era solo più confusa di prima. Se non parlava della sua cecità, allora a cosa si riferiva? Aveva inghiottito l'ennesimo sospiro, mentre con la mano iniziava a tastare la superficie intorno a sé.

Solo ora si rendeva conto di trovarsi in una stanza, o quanto meno in un territorio circoscritto, vista la presenza di mura. Quest'ultime erano lisce come seta, ma al tempo stesso fermi e solidi sulla loro posizione.

Non c'era nemmeno una crepa o un solco nell'intonaco, sempre che vi fosse, e Shahrazād non aveva idea di cosa usare per creare un segno del suo passaggio. Sperava che non si sarebbe trovata a girare in tondo, ancora e ancora, fino a quando Sover non l'avesse svegliata.

"Nessuno può aiutarti qui," mani fredde le avevano toccato le guance, quasi rassicuranti, mentre lei si chiedeva se le avessero appena letto nel pensiero. "Siamo solo io e te?" Si era sentita a disagio nel chiederlo; forse perché non era certa che il suo compagno avesse realmente una forma fisica. Qualsiasi fosse stata la risposta, era certa che non le sarebbe piaciuta.

Le mani si erano spostate sulle sue labbra, quasi a volerla zittire, mentre la voce si prendeva gioco di lei. Le pareva lontana, ovattata da chissà cosa, eppure la stava toccando.

"Oh no," se l'era immaginato scuotere la testa e schioccare la lingua sul palato, come quando si canzona un bimbo per aver detto uno sciocchezza, "io non sono né tuo alleato, né tuo nemico."

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