CAPITOTOLO CINQUANTADUE

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Capitolo Cinquantadue: uno a quattro

"Rendo grazie all'inizio e alla fine di tutto," aveva balbettato Shahrazād con il cuore in gola, "salute a te, Eternità."

Non aveva idea che Sover l'avrebbe mandata da lui, altrimenti ci avrebbe pensato due volte prima di acconsentire. Sapeva relativamente poco di Eternità, perché quasi nulla di lui era pervenuto all'unanimità. Lei lo aveva scoperto per caso, sentendo parlare uno dei vecchi saggi.

Delirava, le dicevano le consorelle, non stava bene ascoltarlo. Lei si era limitata ad annuire, decidendo con se stessa che avrebbe origliato solo un pochino.

Parlava di un ombra e di una luce che, in qualche modo, erano la stessa cosa e farneticava di un bambino. Un piccolo giovanotto dal sorriso lucido e gli occhi vuoti, che sorvegliava il tutto. Creava esseri per gioco e per diletto; poi, se li riprendeva. Non vi era nulla più grandi di lui, di Eternità.

"Ormai non mi capita più molto spesso di incontrarvi," aveva avvertito l'aria cambiare, farsi più calda e dolce, mentre se lo immaginava sorridere, "è sempre un piacere avere compagnia."

Shahrazād era rimasta in silenzio, la testa vuota come gli occhi. Chissà com'era la dimora in cui risiedeva, e chissà se davvero aveva l'aspetto di un bambino.

Fino a quel momento, aveva creduto di trovarsi in presenza di un qualcosa di incorporeo. Forse lo era. Forse aveva solo preso in prestito le spoglie di un umano, per dimenticarsi quale fosse il suo vero aspetto. In quel caso, però, sarebbe stato inutile, visto che non poteva vederlo. Forse Eternità si nascondeva a se stesso, più che agli altri.

"Nessuno sa di te." Aveva mormorato lei, perché era la prima cosa a cui aveva pensato. Il primo pensiero lucido dopo istanti piacevoli ma terrorizzanti.

Perché il Dio avrebbe dovuto nascondersi? Insomma, Sover era quasi morto proprio perché era rimasta l'unica a poter pronunciare la sua parola. Concretamente non aveva senso, ma chi meglio di Eternità avrebbe potuto risponderle?

"Tutti credono in qualcosa di superiore." Shahrazād aveva sentito il tono gelarsi, stizzito. Ma non in te, sarebbe stata l'ovvia risposta. Non aveva intenzione di mettersi a litigare con il Dio, quindi si era fatta nuovamente silenziosa.

Aveva chiuso gli occhi e inspirato profondamente dal naso, sentendo il profumo di mela e limone. Sotto le dita, la consistenza delicata ed elastica degli acini d'uva.

Il vento le aveva accarezzato il collo, mentre i capelli le si sollevavano in aria. Si era alzata in piedi con fluidità e con eleganza aveva mosso due passi avanti, a destra. Riconosceva le mattonelle sotto ai piedi, gli odori della frutta del mercato e, appena sette passi più avanti, la statua del centro.

Era a Città dei Peccatori.

"Perché sono qua?" Gli era riconoscente, in parte. Non si era resa conto di quanto quelle strade le fossero mancate. Nel petto aveva sentito una piccola stretta, poi il sussulto del suo cuore impietosito.

"Pensavo ti avrebbe messa a tuo agio," qualcosa nel suo tono di voce le aveva fatto credere che non pensasse, ma che lo sapesse per certo, "per questo ho eliminato gli elementi umani."

Il singhiozzo della risatina gioviale di Eternità l'aveva frastornata e intontita. Era meravigliosa, quasi musicale alle orecchie. La divinità le aveva fatto una battuta e lei, in risposta, gli aveva sorriso.

"Grazie." Le era uscito come un gemito strozzato, ma comunque sia ben udibile.

"Grazie a te." Eternità le aveva sbuffato sul viso, facendole arricciare il naso e dilatare le pupille: il suo alito sapeva di lamponi e menta.

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