Prologo

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Mi infilo in bocca l'ultima cucchiaiata di parmigiana raccolta dal fondo della teglia e chiudo gli occhi. Me ne sto chino in avanti, col culo infossato sul ciglio del divano, e lascio scivolare con lentezza la passata di pomodoro ai lati delle guance. La rimescolo con la punta della lingua, ascolto la musica di Crash Bandicoot proveniente dal televisore acceso. Il sapore salato del formaggio è attenuato dalla dolcezza delle melanzane, le mie papille sono in estasi. Ritiro fuori il cucchiaio con la poltiglia ancora tutta nelle fauci e resto un attimo sospeso, quasi confuso, di fronte al mio riflesso distorto sull'acciaio umido di saliva. Non so cosa mi aspetto di trovarci: la superficie è convessa, oltreché sporca di un diffuso alone giallastro. Eppure, riesco lo stesso a intravedere il monociglio sghembo sopra la radice del mio naso aquilino.

– Ehi, bellezza.

Non sta dicendo a me. Seduto al mio fianco, con le Nike appoggiate sul tavolino da fumo di fronte allo schermo, Alberto ha messo in pausa la partita e si è girato verso il cigolio della porta d'ingresso, alle nostre spalle. 

Lì, sulla soglia del mio appartamento al quinto piano, la mia coinquilina ci guarda apatica, occhiali spessi, ancora appannati e punteggiati da gocce di pioggia. È avvolta in un maglione smunto con una fantasia greca attorno allo stomaco prominente. I tubi porta-disegni in plastica, infilati sotto l'ascella, ciondolano in tutte le direzioni.

– Ciao, – risponde, con una buffa e atona voce nasale. Poi richiude la porta dietro di sé e inizia ad attraversare il salottino con andatura sbilenca.

Quando la sua figura pingue scompare oltre lo stipite del disimpegno, il mio amico si rigira col busto in avanti e si massaggia la barba coi polpastrelli. Riavvia la partita e, appena coperto dai rumori di fondo del gioco, inclina la testa verso di me. – Non glielo dicono molto spesso, eh? – borbotta, a un volume sì, basso, ma non così basso da darmi la certezza che lei non lo abbia sentito, e infatti un sottile brivido d'imbarazzo mi fa accapponare la pelle dietro la nuca.

Mi giro a osservarlo. È già concentrato su altro: le sue dita nodose accompagnano le levette del joystick come in un tango sensuale sotto al chiaro di luna e i riflessi luminosi della volpe umanoide brillano agli angoli della sua sclera di destra. Tuttavia, il ghigno sardonico è ancora lì, tra le gradevoli fossette che gli compaiono sempre ai lati del viso quando sorride.

Ora, dopo un attimo di riflessione, il reale motivo del mio imbarazzo emerge chiaro alla mia coscienza. Non me ne frega niente, in realtà, che Lidia lo abbia sentito. Tanto è troppo abulica per replicare alcunché. È che Alberto ha ragione: non credo proprio che siano in molti a chiamarla "bellezza". Perché non lo è. E, proprio per questo, posso solo immaginare con quale pietà mi guarderebbero i miei amici, se venissero a sapere che sei mesi fa le ho chiesto di diventare la mia scopamica. 

A mia discolpa, pensavo di andare a colpo sicuro. Davo per scontato che ne sarebbe stata entusiasta, vista la sua situazione. 

La cosa grave, peraltro, è che lei non mi ha neanche risposto. Mi ha solo fissato per trenta secondi con un'espressione di sbigottimento mista a disgusto. Dopodiché è uscita dalla stanza.

– Gian-marco! – La sento gridare dal corridoio. Lei tende a far sentire lo stacco tra le due consonanti quando pronuncia il mio nome.

– Eh? – le rispondo, senza neanche voltarmi. Getto svogliato il cucchiaio nella teglia ormai vuota.

– Che cos'è questa puzza?!

Io e Alberto ci guardiamo negli occhi. 

Ok, controllo incrociato delle condizioni ambientali. Io mi annuso un'ascella mentre lui toglie i piedi dal tavolino e solleva da terra il bong che abbiamo costruito oggi pomeriggio a partire da una bottiglia di Sprite. Se lo avvicina al naso e lo fiuta con convinzione. Un gesto brusco e un po' dell'acquetta giallastra al suo interno si rovescia su una busta chiusa appoggiata sul ripiano in legno. Sopra, a pennarello, c'è scritto: "Per Gianmarco, bolletta da pagare".

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