Capitolo 23

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Il vuoto...

Ruoto la testa e guardo giù, oltre il tessuto impermeabile che mi barda la spalla, e non vedo le due corsie, né la striscia bianca continua, le due filate di macchine parcheggiate, e il traffico, le luci, le insegne e il gruppetto di persone che, radunatosi sull'asfalto, alza gli indici contro di me, e grida: attenti, ragazzo, chiamate, vigili... Vedo solo il vuoto. La nebbia. I miei bulbi oculari fremono impazziti, lo stomaco si ribalta. Sono i sintomi della vertigine.

I tricipiti non sono mai stati così in tensione, le falangi della mano destra mai così livide, così serrate mentre si stringono attorno al gomito del tubo pluviale, mentre tengo gli occhi fissi sulla gronda e punto i piedi contro il muro per darmi la spinta. 

Non avevo altra via d'uscita... Solo quella finestra del cazzo.

Ma quella finestra dava sulla facciata sbagliata: quella perpendicolare a Viale Bonaini, arteria grigia e fetente, di norma ignara delle tue disgrazie, delle tue difficoltà... Puoi attraversarla in lungo e in largo milioni di volte e rimanere nell'anonimato, continuare a non essere nessuno, sempre, a prescindere. Fintantoché non sei un criminale, con ogni evidenza; perché a quel punto è quasi impossibile passare inosservati e andarsene via, essere lasciato in pace... A quel punto, e solo a quel punto, finisci al centro dell'attenzione di tutti, non è così?! Se quelle ante si fossero aperte sul cortile sul retro, forse non avrei trovato nessun testimone, affacciato ai balconi delle palazzine... Nessuno avrebbe fatto caso a me, ora il sole è calato oltre i tetti, ora che è quasi ora di cena... E io avrei potuto rimanere lì, in equilibrio sul cornicione, finché gli agenti non avessero desistito, non trovandomi dentro casa. 

Ma così non è andata. Sono in trappola, adesso. Tutti mi stanno osservando dal basso, e io... posso solo scendere o salire. Nessuna delle due opzioni conduce alla salvezza. Ma, delle due, scendere significa precipitare nel vuoto.

E ci ho pensato, davvero, perché il mio piano è fallito dopo un minuto e mezzo dalla sua ideazione e ancora non accetto la prospettiva di perderla... la moka. Il mio cervello lo rifiuta, sfugge con dovizia da questa conclusione. Lo seguo, mentre mi suggerisce di mettermi al riparo, di sopravvivere ancora per qualche minuto, e mi aggrappo con tutte le forze alla grondaia sporca di smog e di polvere depositata dalla pioggia. Ora, l'obiettivo è montare sul tetto. 

Il vento serale mi scompiglia i riccioli sulla fronte sudata, pizzica la salsedine delle lacrime sulla pelle frusta dal freddo, la lamiera cigola sotto il mio peso e penso che, forse, mai prima d'ora questi bulloni hanno dovuto sopportare il peso di un individuo della mia statura. In ogni momento, la struttura che mi tiene sospeso sull'abisso può cedere sotto di me. Per questo, ho fretta di trovare un appiglio al di là, prima che sia tardi.

Se qualche ora fa mi avessero chiesto se sarei stato in grado di arrampicarmi fin qui a partire dal cornicione dell'ultimo piano, avrei risposto di no. Che non ho la forma fisica necessaria, né tantomeno la coordinazione. Ma adesso, con la morte che incombe... è un po' diverso.

Non sono sicuro, ma mi sembra di sentire due tipi di sirene diverse giungere da differenti direzioni, e riecheggiare potenti nei balzi tra un edificio e l'altro, ora da nord, ora da sud-ovest. I lampeggianti blu scavalcano la foschia, colpiscono l'angolo della cornea asciutta.

Tendo i muscoli addominali fino a sentirli dolere, riesco a sollevare la prima gamba e poggiare il tallone sul piano. L'altra... è ancora sospesa nel buio. Mi manca il respiro, non ho nessuna garanzia che le tegole dell'ultima fila restino ferme dove sono, e non si sfilino dall'incastro che le tiene ancorate a quelle successive. Il ferro mi sega il polpaccio, ho i crampi alle mani. 

Ma è solo questione di un'ultima spinta. Ed è fatta.

Mi rotolo sulla schiena e resto a pancia all'aria sul piano inclinato, gli occhi proiettati nella volta del cielo. Non c'è neanche una stella. Solo il grigio. E mi figuro di rimanere qui per sempre... fino alla morte, in compagnia solo di questo panorama di merda. È un pensiero desolante e consolante insieme, è strano...

La mokaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora