La terra promessa

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20 Novembre, 1870

Cara Bilitis,
Ora devo proseguire il racconto del nostro arrivo a Parigi.

Dunque, dopo quel lungo bacio, mi sono addormentata, sfinita dalla lunga felicità offertami dall'amore. Le vibrazioni del treno mi cullavano e i paesaggi che si annulavano, entravano nella mia testa: girasoli, campi di grano, minuscoli punti che si armavano di aratri, i fiori d'arancio dispersi nell'etere. Non sapevo se Jean mi stesse guardando oppure no, tuttavia avvertivo la sua stretta, dolce e rassicurante.

Dopo due ore, il veicolo si è fermato e la voce del controllore ha risuonato per tutta la stazione.
-Ehi, bella Addormentata, siamo arrivati a Parigi.- mi ha incitato Jean ironicamente, scuotendomi.

Ho aperto gli occhi e mi sono alzata, un po' stordita dal lungo sonno. Non appena siamo scesi, siamo stati investiti dalla folla, pregna di uomini e donne molto diversi da quelli delle Ardenne.
Le donne erano molto eleganti nell'indossare i loro abiti sorretti dalla crinolette, le quali formavano una sorta di buffa collina. Seta colorata, pizzi sfolgoranti alla luce del sole,  merletti e fiocchi, completavano l'interessante quadro dell'abbigliamento del gentil sesso. Gli uomini avevano una camicia ben stirata, un soprabito scuro che li copriva bene, calzoni in seta, scarpe di vernice e una bombetta. Stringevano nella loro mano dei bastoni da passeggio.

'E così in questa città si vestono con eleganza' ho riflettuto osservando la cellula di colori accesi e scuri 'Chissà cosa direbbero i vicini di Charleville a riguardo.  Forse saranno invidiosi perchè non hanno i soldi per acquistare degli abiti così belli, forse si lamenteranno dell'ostentazione dei benestanti, forse chiameranno in causa Gesù.'  In cuor mio, sapevo che non mi sarei ribellata con i fiocchi, ma con qualcosa di più estremo.

Dopo aver pensato a ciò, io e Jean ci siamo allontanati dalla stazione per vedere la città. Sono rimasta folgorata: case bianche cristalline dai tetti neri si affastelavano, si univano tra loro per formare un corridoio architettonico. La strada principale era ben pulita, sebbene qualche piccione si azzardasse  a mangiucchiare delle briciole di pane abbandonate al loro destino. Cresceva gradualmente un via vai di persone.

C'erano madri o bambinaie che accompagnavano i bambini a scuola,
c'erano signore che si soffermavano sui tessuti colorati messi in bella mostra da un venditore ambulante, c'erano uomini che entravano nei negozi per acquistare le pipe, c'erano ragazze in età da marito che correvano all'impazzata pur di avere un corredo. Il mio amico, intanto, per mano mi portava per altri sentieri, come se in passato avesse già visitato quel mondo straniero.

-Che te ne pare?- mi ha chiesto
-È meravigliosa...- ho mormorato, con gli occhi fissi su una casetta circondata da un giardinetto ben curato.
-Adesso ti porterò in un posto che conosco soltanto io.- mi ha spiegato. In silenzio, ho lasciato che la mia guida mi trascinasse dove il cuore a sua volta lo portava.

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-Da quanto tempo non ti rivedo, figliolo caro- una vecchietta minuta, con i capelli raccolti in una strettissima treccia, ha abbracciato Jean con molto affetto. Il giovane ha ricambiato, abbracciandola a sua volta.
-Sapete, signora, ho avuto un bel daffare con la mia famiglia. Tuttavia ora sono qua, è questo quello che conta. Comunque, vi presento Celestìne, una mia amica.-

A quanto pare, la donna doveva essere la proprietaria della casa, un complesso dalle pareti di pietra arancione, con piccole finestre impolverate e un tetto rosso sangue. Un posto molto strano per una signora rispettabile.

-Fatevi vedere, cara. Ah, quanto siete bella! Una fanciulla in fiore.- mentre l'anfitriona mi tempestava di complimenti, l'ho osservata attentamente. Piccola ed esile, con il volto scavato dalle rughe. Uno scialle colorato, proveniente dalla Spagna, copriva la camicia e la gonna lunga che indossava quel giorno. Le mani parevano un portagioie vivente per l'ingente numero di anelli che coprivano le sue lunghe dita. Due orecchini a cerchio dorati tintinnavano quando muoveva la testa. Magari era una zingara spagnola.

-Se ci volete scusare, noi desideriamo alloggiare nella vostra soffitta.- ha detto Jean, amichevolmente.
-Ma certo, cari! Seguitemi.- ha risposto la donna.

Ha aperto la porta e ci ha fatti entrare. In mezzo a divani che fungevano da letto per le ragnatele c'era una lunga scala di legno. Siamo saliti e siamo arrivati in una soffitta molto grande, con pareti in legno impolverate su cui erano appesi quadri da quattro soldi. Sul pavimento erano sparse delle candele. Non c'era neanche un letto.

-Vi ringrazio molto, signora- ho replicato io, sorridendo.
-Di nulla. Se necessitate di qualcosa, venite subito da me. Verso le otto di mattina vi preparerò  la colazione e alle ventuno di sera la cena. Capito?-

Noi due abbiamo annuito.
Rimasti soli, ci siamo abbracciati.
-Sei pronta per questa avventura?- mi ha domandato Jean.
-Certamente. Ora che si fa?-
-Devo portarti ad un bar. Scommetto che sarai assettata.-
-Quando si va? -
-Ora. Lasciamo qui i bagagli.- mi ha comunicato con serietà.

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