L'impero della decandenza

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Dopo circa dieci minuti di camminata, la cameriera ha lasciato me e Celestìne dinanzi ad un palazzo piuttosto imponente. Aveva pareti bianche, pulite. Sembrava che neanche questo maniero fosse stato sfregiato dalla violenza della Comune. Era lì, incurante della Vita che ti calpesta come si fa con un sigaro, pronta ad accogliere a braccia aperte chi volentieri si sarebbe preso la briga di giocare a carte o di ballare un valzer.

Non mi piace tanto ballare, ad essere sincero. Preferisco uscire la sera, sfidare il vento, predire ciò che nessuno è capace di prevedere. Mi sento non solo un re, un veggente ma un avventuriero in cerca di terre da esplorare con la mia fantasia. Anzi! Esploro meglio grazie agli allucinogeni.

Tornando a noi, la dimora bianca era piena di finestre. Finestre aperte che accoglievano il fumo dei camini; le strilla dei bambini; le imprecazioni; i sogni; i sospiri di coloro che sono affetti da tedio.

Celestine non sembrava spaventata.
Tutta concentrata nell'osservare la casa, lasciava che il vento le scompigliasse i capelli mossi e buttasse dall'anima i residui dell'ubriacatura. La camicia da notte, coperta da un soprabito maschile, si aderiva alla sua pelle: che avrebbe avuto lo stesso odore della lavanda? Il sentore di una devozione verso qualcosa a cui non credo più?

Forse, con delicatezza, senza proferire voce, mi sta proteggendo dal male. Quel male che mi ha sempre fatto toccare il fondo, dai tempi del mio amore per Baudelaire, dei furti nella biblioteca di Charleville o della depressione strozzata dalla rabbia verso il mondo. Col senno di poi si sta tuffando nel vortice.

Mentre il mio cuore fabbricava pensieri simili, il portone venne aperto dalla nostra guida, la quale ci condusse  verso la sala d'ingresso.

-Jean! Jean! Sembra il palazzo delle fiabe!- squittì la mia compagna di viaggio, sottovoce. In effetti era vero: sembrava il castello del protagonista di una favola.

Le pareti color madreperla erano tappezzate da quadri del Rinascimento e di Watteu. Levrau, tempo fa mi aveva scritto che Watteau era il suo pittore preferito. Osservando i suoi lavori, fui molto infastidito dalla vezzosità delle scene ritratte. Non lo diedi a vedere.

Le scale su cui stavamo salendo erano coperte da un morbido tappeto azzuro chiaro, che attutiva i nostri passi. In tutta la sala, un grandissimo ritratto del nonno di Paul dominava senza rivali. Con il suo cipiglio, sembrava che volesse mandare tutti quanti ad una casa di correzione. Nella mano guantats teneva un frustino, di quelli che si sfruttano per far passare un bel pomeriggio i bambini cattivi.

Arrivati alla fine della scala, la signora bussò ad un portone di quercia. La giovane, in quell'istante, strinse la mia mano. Non era una stretta di paura, ma di sfrontata eccitazione. Di rimando, anch'io strinsi la sua.


Mathilde, in tutti i suoi diciasette anni di vita, non aveva mai visto una coppia di ragazzini (bambini, per lei) così strampalata: un sedicenne squattrinato, piccolo, magro, con uno sguardo arrogante, quasi machiavellico e una sua coetanea in camicia da notte -una cosa vergognosa- che, in ogni modo, cercava di nascondere il suo spaesamento guardandola fisso negli occhi. Se fosse stato possibile, avrebbe voluto cacciarli via, riportarli a casa. Tuttavia, Paul aveva voluto ospitare il ragazzino a tutti i costi. Quando aveva ordinato a Fleur, la cuoca, di preparare una porzione in più di stufato, si era comportato come un bambino in procinto di strillare, per farsi regalare un giocattolo.

Perchè mai tenerci così tanto ad uno studentello? Perchè c'era al suo fianco una scappata di casa? Bah...
A questo punto, doveva fare buon viso a cattivo gioco. Così sfoderò le sue buone maniere, dicendo:-Buongiorno, cari. Paul sta tornando dal lavoro, ma sarà qui a breve. Sono Mathilde, Mathilde Levrau, sua moglie.-

Celestine- che aveva bevuto il rosa dell'abito di chiffon dell'anfitrion, il bianco degli orecchini e del fiocco appeso ai capelli neri raccolti- fece un piccolo inchino, con lo sguardo abbassato.
-Vi ringrazio per la vostra ospitalità, Madame. Sono Celestìne, Celestìne Debrau! Spero di non avervi importunato con la mia presenza, ma..-
-Non vi preoccupate! Non siete assolutamente d'intralcio, tutt'altro. Più siamo, meglio è, non trovate?- ribattè Mathilde, positivamente sorpresa dalla delicatezza dell'ospite
-Avete ragione. Comunque, il ragazzo vicino a me è Jean Voult-
-Lo so chi è. Mio marito lo ha invitato a pranzo-
-Buongiorno.- biascicai
C'è una cosa in cui noi ragazzi siamo diversi dalle donne: non ci piace parlare, nè scrivere tanto. Si perderebbe troppo tempo a fare entrambe le cose. E quando sei davanti ad una borghese come tutte le altre, il tempo non vuoi perderlo ulteriormente.
Restammo in silenzio così, ad osservarci. Poi, la porta si aprì e Paul Levrau fece la sua comparsa.

Era un uomo robusto, sulla trentina. Aveva capelli neri pettinati e le bassette che gli incorniciavano il volto scarno. Occhi blu profondi, saggi, gabbie di una misteriosa malinconia, osservavano ciò che stava succedendo attorno a lui. Era coperto da un soprabito non molto di moda.

Era l'impero della decadenza. Le fondamenta del secolo a cui ci siamo affidati con così tanta, ossessiva certezza. Lo sapeva bene e lo aveva replicato in "Poesie saturnine".
Quando vide me e la mia amica, sorrise stupito. Non si aspettava di ricevere due ospiti! Tuttavia, non sembrava contrariato.
-Ah, monsieur Voult, siete arrivato! Scusatemi il ritardo, davvero. Il capo non voleva lasciarmi andare...chi è questa bella damigella?- domandò, avvicinandosi a Celestine, con il fare di un padre che vuole scherzare con i suoi bambini.
-Sono Celestine, signore. Celestine Deb..-
-Con me, niente formalità! Sono cose che non mi fanno impazzire. Non hai vestiti? Non ti preoccupare! Penso che mia moglie abbia qualche abito che potrebbe prestarti. Se fossi in te, pranzerei in vestaglia ma, purtroppo, non si può.-

La mia compagna, per tutta quella benevolenza, arrossì e, dopo aver ringraziato con lo sguardo Mathilde, si allontanò verso la stanza di quest'ultima, accompagnata dalla cameriera.

Io e Paul, intanto, ci perdemmo nei nostri sguardi. L'onda del mare avrebbe per sempre placato il vento delle mie scarpe

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