Quando si ama

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-A quanto pare sei te il giovane che mi ha scritto il mese scorso.-
Il signor Levrau mi fissò attentamente, come se davanti a lui fosse avanzato uno strano animale proveniente da chissà quale isola lontana. Il ticchettio dell'orologio a pendolo scandiva le sillabe emesse dalle sue labbra, ritmicamente.

Sua moglie, intanto, ricamava un lavoro iniziato il giorno prima. Il suo cipiglio ricordava quello di una bambina arrabbiata con i suoi genitori, con le labbra arricciate in un grazioso broncio e le sopracciglia abbassate. L'ago, tra le sue mani, si tuffava nell'oceano bianco e rosa del suo quadretto.

Le domestiche, nel frattempo, scambiavano pettegolezzi scritti nei giornali, nascoste in un angolino della casa. Ridacchiavano sommessamente, non volendo essere sgridate dalla padrona per la loro negligenza.

Stanco del silenzio, decisi di rompere il ghiaccio.
-Si, sono io. Perchè?- chiesi, mettendo in mostra la sicurezza di cui potevo essere capace.
-E che...- Levrau giocava con un bottone del suo soprabito, occhi blu rivolti in basso. -Mi sembravi...più grande.-. Aveva capito. Aveva capito tutto, lui. Lo incitai a parlare

-Nella tua lettera, mi hai detto di avere vent'anni. La poesia che mi hai mandato era notevole per un ragazzo di quell'età. Eppure, mi sembri più piccolo. - spiegò. -Allora, quanti anni avete?- soggiunse

Con un moto di fastidio, replicai:- Sedici. Ma che importanza ha?-
vero che, nell'arte poetica, ma anche nell'arte in generale, l'età non conta, ma le tue poesie sono davvero straordinarie! Sei maturo, molto maturo.- si giustificava frettolosamente, come se fosse stato scoperto a dire una parola oscena.
-Vuoi adularmi, per caso?-
Fin dai tempi del collegio, sono stato tempestato di lodi; premi; complimenti; salamelecchi. In passato, pensavo che fossero stati dettati dal cuore. Ora so che volevano qualcosa da me, la mia libertà creativa. Mi ero stancato di quella gabbia d'oro.

Scrivo poesie per essere libero, non di certo per farmi legare da catene d'oro sempre più strette.

-No! Sono sincero. - disse Paul. Non dissi niente, aspettai che Celestìne uscisse fuori dalla stanza della padrona di casa. Chissà cosa si sarebbe messa.

-Come sta tua madre? E i tuoi fratelli?-
-Stanno bene. Non dicono molto, non dice molto la loro vita. Sono persone ordinarie- raccontai indifferentemente
-Li hai avvertiti della tua partenza per Parigi?-
-Non era necessario. Sono abituati alle mie sparizioni: farebbero i salti di gioia se scomparissi per sempre.-
-Ti vogliono bene, non ne sarebbero contenti-
-Dentro di me c'è il marciume. C'è lo schifo. Anche papà aveva il marciume nel corpo e nessuno aveva voglia di averci a che fare. Ti porta a rovinare ciò che tocchi, a farlo morire.- Parlavo con foga, dimentico di tutto il resto. Pareva il discorso di un individuo con intenti suicidi, sempre perseguitato da una visione distorta della vita, in cui tutto si scarnifica, rivela l'obbrobrio del reale, il suo buio. Bruciavo tutto.

-Meglio avere il marciume, che essere insignificanti.- sentenziò il mio interlocutore. Sorrisi.

È strano il modo in cui una persona riesce a farti nascere dei sentimenti. Sentimenti contrastanti; centrifughi; pronti a scontrarsi e a ricontrarsi. C'è chi lo fa con la persuasione; con le lacrime; con la rabbia o con l'ascolto.
Paul mi aveva ascoltato, comportandosi come un vero padre.

Da un lato volevo distanziarmi dal suo caldo abbraccio fatto di comprensione, dall'altro volevo accostarmi di più, gradualmente. Non so se provasse lo stesso. Le emozioni stavano sempre più germogliando nella mia anima.
Meglio avere il marciume, che essere insignificanti.
Quella frase mi rimase dentro.

Celestìne uscì dalla stanza, sfoggiando il suo nuovo abito. Girava in tondo su sè stessa, rideva genuinamente.
-Che ve ne pare?- chiese.
Era un vestito nero; di quelli che si usano per il lutto. Aveva la scollatura aperta sul davanti. Tutta la seta era arricciata e raccolta dietro.
Tra i capelli spiccava una rosa dai petali carnosi.

Mathilde, al vederla, sospirò con gli occhi chiusi, forse per pregare.
-Sei stupenda.- dissimo noi, all'unisono

Per tutto il pranzo non facemmo altro che discorrere. La bruna si lasciava andare, raccontando fatti intimi sulla sua vita. La signora Levrau era rinchiusa nella sua torre illusoria, piena di moralismo e io e Paul ci guardavamo negli occhi, con un senso di complicità segreta.
Ci divertimmo moltissimo






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