Un rapimento inaspettato.

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Erano passati un paio di anni dal giorno della mia laurea in pianoforte. Non riuscivo ancora ad abituarmi al titolo di maestro e pensavo che non ce l'avrei mai fatta.

Non appena laureato, iniziai a lavorare nella scuola di musica della mia primissima insegnante, finché non mi capitò l'occasione di una vita: Mi venne chiesto di suonare con l'orchestra di Santa Cecilia. Una delle dieci migliori orchestre al mondo.

Non ci pensai e mi buttai. Era il massimo a cui potessi aspirare, non che io ci avessi mai aspirato. A dire il vero non credevo di esserne all'altezza. Avevo iniziato a suonare il pianoforte a quattordici anni, sommando i quattro successivi che ho passato a farmi da autodidatta; avrei dovuto essere troppo in ritardo per competere con i cinesini, chiusi già dal terzo compleanno a suonare, per rendere orgoglioso il padre.

Ma eccomi lì. Questa grande occasione per le mani e l'enorme paura di mandarla a puttane. Come avrei potuto non mandarla a puttane?
Tremavo già al pensiero di dovermi esibire in una situazione dal livello così alto. Il programma richiedeva che io suonassi il secondo concerto di Rachmaninov. Anche detto l'incubo dei pianisti.

Ed ecco che in un battibaleno era già arrivato il giorno del concerto. Indossavo il più bello dei miei abiti. Ero tanto elegante, tanto affascinante, tanto carismatico da poter sedurre un esercito di donne. Me la credevo. Dovevo credermela, perché era il modo in cui annegavo l'ansia.

Darsi un tono e mostrarsi sicuri è la maniera più funzionante che conosco per rimanere concentrato durante un concerto. Non puoi essere un pianista insicuro, perché il pianista insicuro è quello che manca le note, che struscia le dita sui tasti sbagliati. Non era la sera giusta per le dissonanze, doveva andare tutto bene.

A ventotto anni, ancora ero riuscito a evitare il fumo delle sigarette. Fumavo erba dai miei sedici anni, ma il tabacco lo ripudiavo con tutto me stesso. Giustamente credo. Ma per quella sera mi ero comprato un pacchetto. Non so come mai. Avevo bisogno di scaricare tutta quella maledetta ansia. Credetti che mi avrebbe aiutato.

A mezz'ora dal concerto mi assentai un momento. Trovai una terrazza solitaria ai piani alti del teatro. Finalmente avevo trovato un po' di silenzio, o quasi. Si sentivano i vocii lontani e gli archi accordarsi, nient'altro. Prelevai dal taschino interno della giacca l'accendino, poi una sigaretta, già preparata nella tasca dei pantaloni. L'accesi.

Aspirai e fu come un orgasmo. Iniziai a tossire, troppo abituato all'aspirare dalle canne. Poi aspirai ancora. In testa niente di niente. Ero leggero e mi godevo il primo buio della giornata e le macchine lontane che scorrevano. Una giornata come un'altra, pensai.
Solo che avrei dovuto suonare alla perfezione, per un'ora, davanti a un pubblico esperto.

Guardai la sigaretta a metà. "Bah." la gettai a terra e la calpestai. "Ma che sto facendo?" mi chiesi. Poi mi venne voglia di rientrare e di immedesimarsi nella parte del grande pianista. "Una giornata come un'altra." sospirai.

Quando mi trovavo a un metro dall'entrata della terrazza, una luce abbagliante mi sorprese alle spalle.
Mi voltai immediatamente con una mano a parare tutta quella luce.
Poi mi sentii leggero e il pavimento venne a mancare. I miei piedi si stavano staccando dal terreno. Mi aggrappai disperato allo stipite della porta della terrazza, ma la presa non fu abbastanza forte. Vidi il teatro dall'alto e pensai di essere morto. Per una fottuta mezza sigaretta, pensai.
Poi, tutto d'un tratto svenni.

Mi risvegliai in una stanza completamente bianca e abbagliante.
Ero legato su un'avanzatissima sedia robotica. Alla mia destra e alla mia sinistra c'erano altre due persone, bloccate come me. Eravamo terrorizzati. Uno di loro urlava, ma non conoscevo la lingua. Suonava come un arabo meno catarroso.

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