Liebesträume. - Parte 1.

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Che anno. Tutto diverso da come me l'aspettavo. Drasticamente più deludente, purtroppo. Ma è colpa mia e della mia vacillante salute mentale. Pensavo di venire a Cuneo e dominare ogni contesto sociale con la mia travolgente personalità e il mio carisma leggendario.

Già mi vedevo circondato da amici, e da ragazze; ragazze a fiotte. Ero proprio sicuro che sarei arrivato a dover dire a tutte quelle squinzie che ce n'è abbastanza per tutte e che non devono litigare per il miglior pianista del conservatorio; che di dita ne ho dieci e, contando pure il belino, potremmo davvero divertirci, se solo si dessero una calmata. Invece son nove mesi che non trombo. 

Ottimo, sto già divagando. Facciamo che comincio dal principio. Suono il pianoforte, ma perché? Perché passo un'infinità di ore, ogni giorno, a schiacciare tasti bianchi e tasti neri? Ed è una domanda che potrebbe mandarmi in crisi; davvero: perché lo faccio? Per risalire alle profonde motivazioni che accompagnano questa mia scelta quotidiana: di mettermi su uno sgabello ad aspettar la gobba; partirei dal giorno in cui infilai le prime note sullo strumento.

 Avevo quattordici anni, era gennaio e l'ITIS di Savona accoglieva gli alunni, nonostante i caloriferi spenti. Allora fu sciopero. Millecinquecento studenti sui gradini dell'entrata dell'istituto a urlare «Frocio chi entra!», e allora nessuno entrava, manco i froci. Omosessuali, si dice. 

Date le circostanze chiamai mio padre, che mi venne a prendere, senza farsi aspettare. Non si fa mai aspettare. Salito in macchina, privo di impegni com'ero, fui obbligato sia dalla morale che dalla mancanza di un mezzo su ruote tutto mio, ad accettare di seguirlo nella sua mattinata. 

Sì, perché da lì a poco lui avrebbe suonato la chitarra in una classe delle scuole elementari di Valleggia. Era stata una sua amica; una maestra; a convincerlo. Altrimenti non lo avrebbe mai fatto per conto suo; la gente lo repelle, e a volte il contrario, ma a questo giro lo intortarono in qualche maniera, senz'altro subdola, e accettò.

Come conseguenza, mi ritrovai seduto su una sediolina, davanti a un microscopico banco della taglia di un cinquenne; e bestemmiai il destino beffardo, per esser comunque finito seduto a un banco di scuola. Poi mio padre iniziò a suonare e non fu nulla di incredibile. Non per me, intendo. Ma giusto perché la mia intera vita mi aveva portato a sviluppare l'abitudine per lui e la sua chitarra. Comunque restavo in grado di godermi quella musica, e i bambini pure si divertirono: cantarono, ballarono, e tutto il resto. 

Tornati a casa, il Fausto (fin qui mai nominato per alcuna ragione, ma sto ancora parlando di mio padre) prese a cucinare una pasta, perché a pranzo si mangia pasta e nulla che non sia pasta, mai, per nessun motivo; mentre io risposi per la prima volta nella vita all'impulso di mettermi al pianoforte. 

Un pianoforte a muro, bianco e nero, con un pannello di vetro all'altezza degli occhi, così da godersi le danze dei martelletti. Fu mio padre a metterlo lì, il pannello intendo; e sempre mio padre verniciò di bianco e nero quel pianoforte. Quando lo portò in casa, ai tempi delle lire, era del colore del legno trasandato con cui lo costruirono nel primo novecento e davanti agli occhi, se ti sedevi per suonarlo, c'era solo altro legno e niente martelletti danzanti.

Ora in casa si sentiva lo sfrigolare dell'olio (perché mio padre quando è su di morale cucina la mitica aglio, olio e peperoncino. Quando le cose gli vanno proprio bene, aggiunge pure i pomodori) e la melodia dell'Isola che non c'è di Edoardo Bennato, che da tutta la mattina mi risuonava in testa. Ovviamente il canto non usciva dall'arpa del piano, ma dalla mia gola. 

Non so quante ne cantò mio padre quella mattina, ma a me rimase in testa quella. Lei, tra tutte. Allora ne cercavo la sequenza di note sulla tastiera, senza sapere la differenza tra un tasto e l'altro; oltre quel che si può notare anche da ignoranti: il colore e l'altezza del suono. Tempo di rendersene conto e il Fausto mi soccorse.

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