1. Routine

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La verità, ragazzi, è che ormai non mi sorprendo più di niente.

Lavoravo allo spazioporto da ormai sette anni e potevo dirvi con una certezza del'89% di aver visto di tutto. Capiamoci, all'inizio era pure bello: c'erano tutte quelle creature nuove, quelle astronavi scintillanti, e tutto sembrava lì per essere esplorato. Poi il tempo passa e scopri che non importa con quale specie tu ti stia relazionando, perché tutto quello che devi fare è:

a. Imparare il loro saluto tradizionale (altrimenti si offendono);

b. Imparare qual'è la forma delle loro navicelle (così sai quando sono arrivati e puoi salutarli in modo tradizionale. Altrimenti si offendono);

c. Offrire loro depliant e tariffe vantaggiose;

d. Rispondere a tutte le loro domande cretine sul pianeta Terra (cose come "ma gli umani hanno tutti due occhi? E potrebbero averne tre, per favore, perché mi mette a disagio che ne abbiano due?");

e. Sperare che i visitatori a questo punto se ne vadano per la loro strada senza avvelenare nessuno, sputare negli occhi ai passanti, mordermi i piedi o altre azioni similmente insensate.

La routine ammazza l'avventura e non c'è gioia nei saluti preconfezionati.

Alcuni miei colleghi, nonostante gli anni passati in questo inferno di relazioni interpersonali al limite del ridicolo, erano ancora pieni di entusiasmo e affrontavano ogni giornata come se fosse una festa. Io non li capivo: cosa c'era di tanto bello nell'essere continuamente oberati di lavoro e trattati come pezze da piedi da alieni spocchiosi?

Il peggio è che io amo le sorprese, o almeno, le amavo quando mi capitava ancora di averne qualcuna. Se non riesco a provarne qui, credo di non poter più sperare che mi ricapiti.

A questo punto, quello che mi rimane è cercare di fare bene il mio lavoro.

Perciò, da brava, quando il telefono della mia postazione squillò, io risposi e attesi che fosse il cliente a parlare per primo, in modo da capire quale lingua e maniere era appropriato usare.

Perdonate se suona poco serio ad un umano non abituato, ma, in tono estremamente cortese per la sua specie, il mio interlocutore mi salutò così:

«UaaAAAaaaUAaaUAaaa».

Sospirai, passandomi una mano sugli occhi. Era uno Scala.

Allo Spazioporto li chiamavamo "Scala", perché il nome che danno a sé stessi è uno strano vocalizzo ascendente. "Scala" viene dal nome della Scala Shepard, una particolare illusione auditiva che, come la mia vita, sembra variare costantemente, ma che in realtà non va da nessuna parte.

La loro voce somigliava proprio a quell'illusione, inumana, finto-ascendente ed elettronica.

Per quella specie era incredibilmente inquietante sentire qualcuno che parlava in maniera "piatta", senza salire e scendere continuamente di tono, perciò mi trovai mio malgrado a cercare di adattarmi alla sua parlata per comunicare con lui. Dovevo comunque suonare meccanica e innaturale al mio interlocutore, ma almeno non gli provocai un attacco di panico.

«Salve» Gli dissi, vocalizzando come un gibbone ubriaco «Sta chiamando Lo Spazioporto, gestione DRICE. Grazie per averci contattati. Come posso aiutarla?»

«PaTAte»

«Cosa?»

«PAtatE».

Non conoscevo quella parola nella sua lingua, perciò gli chiesi di evitare slang moderni e spiegarmi in qualche altro modo cosa volesse.

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