5. Un dolcissimo chiodo fisso

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"Partirò. Solo tre giorni".

Era un dolcissimo chiodo fisso.

"Tra tre giorni partirò".

Avevo smesso di consultare i pamphlet della Red Scarab e di cercare foto della Titanika, perché più raccoglievo informazioni su ogni sorta di meraviglia che mi aspettava sui ponti dell'astronave più mi sembrava irrealistico che sarebbe successo proprio a me. A me! Solo per aver avuto un'allucinazione!

Beh, secondo il dottor Egger era anche per curare un mio presunto esaurimento nervoso, ma la cosa non mi creava più alcuna indignazione. Se fosse servito ad imbarcarmi gratis sulla Titanika, ero pronta a fare una confessione video per confermare qualunque condizione mentale il dottor Egger avesse scelto per me quel giorno.

Dovevo ricordarmi di prendergli un pensiero per ringraziarlo durante la crociera. Con novanta mercati coperti (e chissà quanti negozietti di souvenir non menzionati nella scheda tecnica sul sito che avevo consultato) ero fiduciosa che sarei riuscita a trovare qualcosa.

Sforzarmi di credere che davvero una come me sarebbe potuta essere sulla Titanika, però, mi era persino utile sul lavoro: mi dava una motivazione in più per sopportare. Il dottor Egger mi aveva prescritto il ritiro del pacchetto vacanze, ma non ero esentata dal lavoro per il resto delle ore che mi rimanevano... e, insomma, mi andava bene anche così. Tra tre giorni una delle navette della Red Scarab mi avrebbe raccolta e portata via, e tutte le mansioni noiose e i comportamenti irritanti dei clienti mi sembravano piccole cose di fronte a quella prospettiva.

Ero fortunata: non c'erano tantissimi posti sulla Terra che avessero l'autorizzazione e l'attrezzatura per ospitare l'atterraggio di una navetta della Red Scarab... ma lo spazioporto in cui lavoravo, fiore all'occhiello terrestre per qualunque cosa riguardasse i viaggi nello spazio, poteva assolutamente ospitare uno di quei gioiellini. Mi sarebbe bastato prendere la navetta standard come la prendevo tutte le mattine, farmi portare allo spazioporto e da lì salpare. Semplice.

Chissà come sarebbe stato andare sul mio posto di lavoro non da impiegata, ma da viaggiatrice.

Lo Scala del giorno prima mi richiamò per sapere se nel frattempo gli umani si erano estinti e quindi lui non era più a rischio di farsi addomesticare; ma a fronte della tanta fortuna che mi era capitata riuscii a non irritarmi, anche quando dimenticò che io stessa ero umana e che stava parlando della mia specie, o nonostante pensasse che le nostre ere geologiche finissero nel tempo che ci voleva a soffiarsi il naso.

Curiosità che non vi servirà mai a nulla: l'anatomia degli Scala è completamente diversa da quella umana, ma ci mettiamo lo stesso tempo medio a soffiarci il naso.

La mia testa è davvero piena di stupidaggini del genere.

Coordinai arrivi e partenze, bandimmo due piloti che volevano attaccarsi in cielo perché si ostinavano a voler scendere sulla pista prima dell'altro, presi del caffè.

Una volta tornata a casa mi sentivo stanca, ma non distrutta.

Trovai occupata la mia cucina da una minuscola folla composta da una persona sola e da oggetti sparsi, come borsoni e soprabiti, che dovevano appartenere ad almeno dieci persone diverse.

Era una ragazza del team che si occupava di chiudere portali, seduta proprio sopra il punto in cui avevo individuato la minacciosa macchiolina rosa; il suo corpo era completamente coperto dalla testa ai piedi da una tuta antiradiazione color alluminio. Attraverso il casco riuscivo a vedere il viso coperto di lentiggini e i grossi incisivi che mi mostrò in un sorriso mentre mi salutava.

«Non avete ancora finito?» Chiesi in inglese. Non conoscevo la sua nazionalità, ma di solito iniziare con l'inglese era un buon passo: infatti riuscì a rispondermi.

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