ll male senza nome

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Il sole stava per tramontare e sembrava che le motostessero andando a fuoco. 

Le spingevamo a mano, cercando di essere il più silenziosi possibile, costeggiando i muridi cinta della proprietà per nasconderci tra gli alberi. 

Dara si guardava in giro con il viso acceso dalla curiosità. 

Sembrava che stessimo per andare a fare una passeggiatadi piacere, e non che ci fossimo lanciati in una missionepotenzialmente suicida e – se fossimo tornati a casa sani esalvi e la nonna si fosse accorta di quello che avevamo fatto – praticamente letale. 

Poco prima di raggiungere i cancelli ci fermammo davanti al pezzo di muro mobile che avevamo creato io eStella anni prima. Con infinita pazienza avevamo scollatouno a uno i mattoni e avevamo creato un varco che potevaessere spinto in un senso e nell'altro, per poter sgattaiolare fuori indisturbati.

 Passai per primo, mi fermai a osservare la strada deserta, respirai a fondo e lentamente: nessun odore.

 Feci cenno alle ragazze di seguirmi; Dara montò sulla mia moto mentre Stella metteva a posto il muro eci seguiva svelta.Diedi gas e partimmo a tutta velocità. 

Avrei voluto potermi godere la situazione, Dara strettaa me, il suo seno premuto contro la mia schiena, il ritmodel suo cuore che accelerava mentre facevamo lo slalom tra gli alberi e la sensazione di volare a duecentodieci chilometri orari. 

Invece non facevo che guardarmi intornoansiosamente e cercavo di fiutare se qualcuno ci stesse seguendo. Stella dietro di noi faceva lo stesso ma, se le cosefossero andate male, in due non saremmo bastati a proteggerla. 

Quaranta minuti dopo eravamo nella zona degli Arcobaleno.

Le case erano tante villette colorate costruite inmaniera un po' caotica. Giocattoli e palloni di plasticaerano abbandonati un po' ovunque e dagli alberi in fiorependevano nastri di stoffa dai colori vivaci. Quel posto miaveva sempre messo allegria, rispecchiava in pieno la natura di chi lo abitava.Stella mi guidò mentalmente, ci fermammo nel giardino posteriore di una villetta dai muri dipinti di rosso. 

VidiEmma uscire e correrci incontro, facendoci cenno di mettere le motociclette nel garage.Smontai e aiutai Dara a scendere, mentre Emma chiudeva la porta di ferro dietro di noi e correva da Stella perabbracciarla.

 «Grazie», le disse. 

Le guardai male entrambe, ero ancora arrabbiato e tutta quella situazione non mi piaceva affatto.Liberatasi dall'abbraccio di Stella, Emma corse da Dara e la strinse con la stessa forza.«Grazie», le disse in tedesco. 

Lei le sorrise, poi guardò Stella allarmata. 

«Le hai detto che non so se potrò fare qualcosa, vero?». 

«Certo non preoccuparti, per lei è già tanto che tu siavenuta. Capisce cosa stai rischiando per aiutarla». 

«La casa è vuota?», chiesi a Emma. 

«Ci siamo solo io, mio padre e mia madre. Ho mandato i miei fratelli dalle cugine. Nessuno sa che siete qui».  

«Lo spero», borbottai. 

Dara ci guardava e mi ricordai che non capiva cosastessimo dicendo. Le misi una mano dietro la schiena e lefeci cenno di precederci.Salimmo le scalette interne e ci trovammo nel soggiorno della casa, c'era colore ovunque ed enormi arazzi conimmagini di pappagalli ricamati erano appesi alle pareti. 

Emma ci fece strada fino al piano superiore. 

In corridoio,immobile davanti a una porta aperta, c'era suo padre. Ilsuo aspetto mi colpì, sembrava invecchiato di colpo, il dolore aveva corroso tutta la gioia che c'era in lui. 

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