6. Sweet Dreams

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E di nuovo il ragazzo si nascose, scappò, si strappò la pelle sostituendola con qualcosa di non suo. E di nuovo il bambino in se pianse lacrime di ghiaccio, mentre le ferite continuavano a colare.


Entrai nel locale. Era una piccola struttura con un'enorme vetrata dove c'era scritto il nome della caffetteria: "Sweet dreams"  in marrone chiaro e oro, con una calligrafia elegante. La porta di legno con la piccola finestrella, decorata da una tendina a fiorellini, non appena si apriva ti accoglieva con il suono di una piccola campanella d'orata. Il tappeto con scritto "Home sweet Home" rendeva il tutto quasi famigliare. Il piccolo locale era adornato con lampade a forma di funghi sui tavoli e lampadari a sfera sul soffitto. I tavolini rotondi e rettangolari davano un'aria tranquilla, al contrario di una disordinata e strana come si potrebbe pensare. I divani color panna vicino ai muri erano riempiti con cuscini ricamati, sicuramente a mano. Un anziano signore parlò da dietro il bancone di legno scuro, pieno di altre decorazioni carine che, alla fine, avevano la sola utilità di far sembrare il luogo caldo e accogliente.

<<Sei il ragazzo del part-time? Quello che voleva lavorare nel weekend?>>

Chiese con un sorriso confuso, mentre si passava la mano sulla testa calva. Io annuii avvicinandomi al bancone, consegnando all'uomo la carta d'identità e il curriculum di scorta, in caso l'avesse perso.

<<Si signor Miller. Sono Asahi White, ho 17 anni e ho fatto richiesta di lavoro una settimana fa'.>>

Risposi con la voce leggermente più alta del mio solito, avendo sperimentato che il signore davanti a me non sentiva molto bene. Il signor Miller era un uomo basso e tozzo. Aveva la pelle abbronzata e pochi capelli in testa. Il suo viso era sempre segnato da un sorriso, che fosse confuso, arrabbiato o felice. In poco tempo ero riuscito a conoscerlo abbastanza bene, il giusto. Amava raccontare storie, parlare o semplicemente sorseggiare del thè davanti una scacchiera. Aveva, però, anche una pessima memoria. Mi disse che voleva lasciare il locale a sua figlia, vista la sua età, ma avrebbe dovuto aspettare per il suo ritorno dalla California, così cercava personale. L'anziano annuì leggendo con attenzione il curriculum, dopo essersi provato cinque, o anche di più, paia di occhiali.

<<Asahi.... giusto giusto! Sei proprio tu!>>

Esclamò ridacchiaindo, ridandomi i fogli e la carta. Poi si tolse gli occhiali posandoli in una delle tante tasche che possedeva la sua giacca.

<<Vieni pure, ti mostro un po' il locale e ti spiego come si fanno i caffè, i cappuccini e qualche dolcetto.>>

Continuò parlando con eccitazione, dirigendosi verso le macchinette dietro di lui. Io arrivai dall'altra parte del bancone e osservai quegli oggetti. Avevano tutti colori e forme diverse, ma erano comunque eleganti e in tema. Ognuno di essi aveva funzionalità diverse e il signor Miller mi spiegò tutto per filo e per segno, anche se aggiunse moltissimi particolari, pressoché inutili, ma piacevoli e divertenti da ascoltare. Era un uomo davvero paziente e comprensivo. Mi rassicurò dicendo che per ogni problema l'avrei potuto chiamare e mi porse il suo numero scritto su un post-it giallo. Ringraziai chinandomi leggermente in avanti. Lui rise.

<<Perché ti inchini? Non sono mica un sovrano.>>

Il mio viso diventò rosso e rialzai il capo. Scossi la testa distogliendo lo sguardo.

<<In Giappone funziona così. Si ringrazia, si chiede scusa e si saluta in questa maniera. Ci si china leggermente, è una forma di rispetto.>>

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