<<Perchè l'ignoto spaventa così tanto?>>
l'uomo osservò il bambino da sotto il capello e poi rispose
<<Non spaventa, ma attira e questo fa ancora più paura>>
Pioveva. Pioveva a dirotto.
Ho sempre amato la pioggia, mi rilassava, mi distraeva da qualunque altro suono e spesso mi ritrovavo anche ad osservarla in silenzio.
Poteva scendere gentilmente accarezzando il suolo oppure esplodere all'improvviso inondando e affogando le piante. Tranquillizava con quel suo suono dolce o incuteva timore quando cadeva in modo violento.
Ma quel giorno, non l'avrei disprezzata di più.Ero appoggiato con la fronte al finestrino, lo sguardo rivolto verso l'asfalto fradicio e i capelli castani che mi ricadevano un po' sugli occhi.
L'unico suono di sottofondo erano le macchine che, nonostante il temporale, sfrecciavano da una parte all'altra senza sosta. Il cielo era grigio, coperto da nuvoloni minacciosi e dai grandi edifici del posto. Anche solo guardado la città da un finestrino, pensai che l'aria dovesse essere soffocante per i troppi mezzi e così caotica da far rigirare lo stomaco. La odiavo quella città, non ci avevo ancora messo piede ma la odiavo fino al midollo. "New York la città del business e delle infinite possibilità" al diavolo, era solo un concentrato di smog e grattacieli. Mentre ero perso nei miei pensieri una mano calda e gentile mi si poggiò sulla spalla. Non mi girai nemmeno, continuai a guardare fuori accigliandomi leggermente sapendo ciò che stava per accadere.<<Asahi... capisco come ti senti>>
Cominciò a parlare con qualla voce famigliare e morbida.
<<Ma dovevamo trasferisci prima o poi. Rimanere lì non avrebbe avuto senso. Non avevamo parenti, casa nostra era ormai vecchia e distrutta. In più ho sempre voluto portarti qui e mostrarti la mia città natale dove ho studiato, dove ho passato l'adolescenza...>>
<<Mamma, ti prego.>>
Avevo smesso di guardare fuori e mi ero voltato verso di lei, interrompendo il suo discorso che mi aveva ripetuto ormai decine e decine di volte.
Non volevo ricominciare a parlare di questo, non volevo litigare con mia madre per una cosa che a lei faceva piacere, ma non volevo sentire più nulla.
La mamma sospirò e spostò la mano dalla mia spalla alla marcia, posizionandola infine sul volante.<<Vedrai che ti piacerà, ne sono certa. Sembra proprio l'ambiente adatto a te...>>
Sorrise speranzosa e mi guardò con la coda dell'occhio.
L'ambiente adatto a me?
Non c'era una singola cosa in questa dannata città che potesse essere, anche minimamente, adeguata a me.
Ero cresciuto in campi di riso luccicanti, foreste vive e santuari incantevoli.
Come poteva essere questo adatto a me.<<Questo non è ambiente per me.>>
Risposi cercando di non essere esageratamente acido.
Non ricambiai il sorriso e rivolsi di nuovo lo sguardo verso il finestrino, rimanendo accigliato e osservando quelle imponenti strutture vetrate intorno a noi.<<Quante volte ti devo dire di non avere sempre quei cipigli sul volto? Rovinano l'armonia del tuo visetto.>>
Sbuffai. Il mio viso era troppo delicato, troppo piccolo e la pelle eccessivamente chiara.
Mi faceva sembrare una ragazza, ma mia mamma lo adorava. Avevo preso da lei la maggior parte del mio aspetto. I lineamenti, il colore dei capelli e degli occhi. Fortunatamente per me, non avevo preso anche la sua statura, visto la donna minuta che era. Infatti ero alto 1.80m circa e per la prima volta ringraziai di avere anche i geni di quello che doveva essere mio padre.
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Il filo del destino
Genç KurguUn ragazzo, Asahi White, è costretto a lasciare il suo Paese natale e arriva a New York con i pensieri più negativi. Subito nota quanto alla "città che non dorme mai" mancano colori soprattutto nei posti più ignoranti e tralasciati, come per esempio...