IN PAUSA
"무한"
«Ci sono anche altri fiori, oltre a questo».
«Non m'interessano le cose destinate ad appassire».
In città li chiamavano figli del demonio.
Jimin quasi rise, per quanto sembrasse ironica quella frase.
Difatti, Lucifero era il più bell...
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𝓤𝓷 𝓟𝓪𝓽𝓽𝓸
Tormentato. Q
ueste erano le condizioni in cui, l'animo temprato di Jimin, versavano. Le gambe tremanti, mischiate all'abominevole senso di quiete, causa di una pesante e logorante rassegnazione. Le pareti rosse di quella stanza non facevano altro che alimentare un intossicante stato d'agitazione. Park Jimin, navigava nella più totale confusione. Lì, seduto su quell'insulso materasso, aspettando qualcosa d'imprevedibile. Chi gli avrebbe mai potuto garantire che quel folle, una volta varcata la soglia, non l'avrebbe ucciso? Attaccandosi alla sua giugulare, come un lupo affamato che anela la propria preda succulenta. Perché Jimin era questo, una preda, un bersaglio, un minuscolo ed insignificante premio, agli occhi di quei mostri.
Aveva il labbro tra i denti, questo presentava numerose piccole escoriazioni, date dalle continue torture che il biondino gli infliggeva. Le mani erano entrambe una sopra l'altra, poggiate sulle sue cosce, traballanti, a causa di quel movimento spasmodico delle gambe. Il respiro accelerato ed il battito cardiaco che subiva notevoli variazioni ad ogni singolo rumore. Quanto avrebbe potuto resistere così? Si passò una mano tra i capelli, sudati, mentre le palpebre si socchiudevano, per cercare di darsi un contegno. D'altronde, era proprio questo quello che lui amava. Vedere quel lampo di paura attraversare i suoi occhi. Jimin l'aveva compreso la sera prima, quando sentí le mani di Sua Grazia insinuarsi su di lui con più bramosia, ad ogni sguardo terrorizzato che il ragazzino gli riservava. Egli poteva visualizzarlo, vivido nella sua mente, quel momento intriso di paura, agitazione ed un pizzico di qualcosa a cui, il povero ragazzino biondo, non riuscí a trovare alcun nome. Se solo ci avesse provato, sul suo corpo avrebbe potuto sentire di nuovo il corpo di Sua Grazia, premere contro di lui. Quelle mani gelide. Quelle labbra roventi. Ed era quasi un controsenso, percepire un corpo completamente morto, privo di vita, nascondere un calore tanto forte da poterti bruciare vivo. Jimin ricordò la sensazione di tepore, nel momento esatto in cui la lingua del sovrano, gli solcò la pelle. Quel punto quasi gli bruciò, in quel frangente e, per poco, pregò che l'uomo non fosse riuscito a ferirlo, mediante quel muscolo incandescente. L'aveva forse marchiato a fuoco? Era il suo modo di rivendicare qualcosa che gli apparteneva? Che fine che aveva fatto, pensò. Park Jimin, il nuovo passatempo di Sua Maestà.
Fu in quel preciso istante, quando il biondino iniziò a maledire se stesso e la sua sciocca mente — tanto stupida da perdersi in simili sciocchezze — che il vero suono di cui Jimin aveva così tanta paura, rieccheggiò pesantemente contro le pareti di quella stanza scarlatta. Il giovane balzò in piedi come tirato dai fili di un burattinaio. Eretto, impettito, la mandibola serrata ed il respiro che si faceva, via via, sempre più pesante e difficile da regolarizzare. Sua Grazia era di spalle, impegnato per un breve secondo a chiudere la porta. Tra le mani, reggeva lo stesso candelabro, con la stessa candela, praticamente in dirittura d'arrivo. Fu logorante l'attesa che Jimin dovette subire, prima che il sovrano decidesse di voltarsi completamente e, quando ciò avvenne, il biondo pensò che sarebbe stato meglio che io loro occhi non si fossero mai incontrati prima. L'uragano ch'irrompeva nel petto del ragazzino, ogni volta che i rubini incontravano l'ambra, era di una potenza tale da fargli quasi girare la testa. Eppure, il re lo guardava e lo faceva come solo lui era stato in grado di fare. Jeon Jungkook lo fissava con un misto di due cose, diametralmente opposte e che provvedevano ad appesantire il cervello di Jimin. Con ardore, acceso da una fiamma incandescente che divampava, quando i loro occhi s'incontravano, ma che dopo pochi istanti, diventava sempre più flebile, fino a sfociare nella più totale delusione. Erano tante le cose che Jimin non comprendeva, una di queste, era sicuramente il fatto di riuscire a leggere dentro quegli occhi, in maniera così profonda, nonostante il dolore ch'erano in grado di provocargli. Quei bagliori che passavano attraverso quelle iridi di ghiaccio, il ragazzino le captava, anche se per pochi secondi. Sua Grazia, con nonchalance, poggiò il candelabro su di una piccola mensola nei dintorni e si fermò a fissare Jimin, con entrambe le braccia chiuse contro il petto. Il giovane abbassò lo sguardo, cercando di focalizzarsi su qualsiasi altra cosa, autoconvincendosi persino del fatto che quella figura non fosse realmente lì con lui. Eppure, quella camera gli faceva così tanta paura che, provarci era pressoché inutile.