ripensamenti

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Il sole splendeva gaudio nel cielo a New York, nonostante la fresca temperatura. La città si stava risvegliando dalla notte anche se, da come suggerisce l'appellativo, non dormiva mai. Le persone erano intente a camminare per strada o a guidare, per raggiungere la loro postazione lavorativa.

Arthur stava ricevendo una paziente: era molto giovane, avrà avuto sui diciotto anni al massimo.

"ho dei pensieri ripetitivi, mi dicono che se prendo un coltello dovrei uccidere la mia sorellina o addirittura me stessa, mi dicono che se c'è un treno in corsa mi dovrei buttare tra i binari. Mi costringono a ripetermi più volte delle frasi finché non mi sento soddisfatta" disse singhiozzando.

"Megan, hai mai sentito parlare di Disturbo Ossessivo-Compulsivo? Descrive appieno la tua situazione. Hai pensieri intrusivi che non puoi controllare, che ti assediano la mente. Sai, tutti li abbiamo perché il cervello umano è progettato per prevenire il pericolo ma quando sono troppo dirompenti si sfocia nella dimensione patologica."

"cosa posso fare?" gli chiese con gli occhi umidi.

"direi che possiamo iniziare con la paroxetina, un antidepressivo. Devi prendere una pillola per cinque giorni per poi aumentare gradualmente a due, d'accordo?"

"grazie dottore, grazie"

il colloquio finì dopo una mezzora. Arthur era già stanco ma non voleva che questa sensazione prendesse il sopravvento. Del resto era il suo lavoro e poi aiutare le persone era una delle cose che amava di più. Il suo motto era se aiuti una persona, aiuti tutti. Ci credeva fermamente.

Si alzò dalla sedia girevole per poi dirigersi in cucina e prepararsi un caffè, nero come la pece e caldo come l'inferno. Si sentiva un po' un peccatore infondo, aveva violato uno dei principi fondamentali del codice deontologico dei medici. Era interdetto, molto. Non sapeva cosa fare: si sentiva una zattera in mezzo alle onde impetuose del mare. Il senso di colpa lo travolgeva come un fiume in piena. Sentiva quasi di amare Arabella ma non lo voleva accettare, non voleva lasciarsi andare.

La situazione si era fatta pesante per lui, troppo pesante. Si sentiva come se avesse avuto un macigno sulla schiena, così insopportabile.

Il tuo lavoro era aiutarla a stare meglio, non andarci a letto! Sei un idiota! continuò a ripetersi fino allo sfinimento. Era così immerso nei suoi pensieri che non sentì nemmeno il suono del campanello.

Aprì la porta per poi ritrovarsi Arabella davanti: indossava un tubino nero che copriva solo parzialmente le calzamaglie ed una lunga giacca di pelle bordeaux, ai piedi aveva dei semplici stivali neri. Era sempre così maledettamente sensuale e bella.

"A-Arabella, oggi non avevamo appuntamento, che ci fai qui?" chiese sorpreso.

"volevo vederti, tu no?" gli disse sfacciatamente, arrotolando una ciocca dei suoi capelli corvini con l'indice.

"si ma dobbiamo anche parlare" esordì serio.

"non avevamo risolto ieri?"

"si tratta di una questione più importante...Arabella, non possiamo continuare così. È troppo rischioso, se ci scoprono io verrò licenziato seduta stante"

"e sentiamo, il genio della lampada non poteva prevedere tutto questo prima di stare al mio gioco?"

"non avresti dovuto neanche iniziarlo. Comunque, mi sembra il caso di chiuderla qui prima che la situazione peggiori ulteriormente" era deciso, nonostante il suo cuore gli urlasse di farla restare.

"no Arthur! Non mi abbandonare anche tu" gli implorò in preda al panico. Gli occhi iniziavano a farsi umidi, le mani tremavano, la testa girava.

"non ho altra scelta, mi dispiace"

"sei solo un cazzo di egoista! Ecco cosa sei, pensi solo al tuo lavoro ma alla fine non ti importa delle persone che hai intorno!"

quelle parole lo travolsero come un treno in corsa. Sapeva che Arabella aveva ragione. Si ricordava di quel giorno in cui sua moglie aveva perso la vita e doleva come una ferita nel sale. Quel giorno aveva fatto uno straordinario a lavoro solo per i soldi, quegli sporchi soldi. Se lo sarebbe potuto benissimo evitare, dal momento che se lo avesse fatto, sua moglie non si avrebbe compiuto quel folle gesto.

La verità era che Eliza si sentiva sola, molto sola, specialmente da quando la carriera di Arthur aveva iniziato a decollare. Arthur non aveva tenuto in conto che una cosa avrebbe preso il sopravvento sull'altra, non ci voleva pensare. Ecco perché si sentiva tanto in colpa. Ora stava per commettere lo stesso errore di tre anni prima: buttare tutto all'aria per il lavoro.

"Arabella, stai pattinando su una patina sottile di ghiaccio" disse, con un velo di rabbia.

"allora, sai che ti dico, fanculo! Lo sapevo che prima o poi questa cosa mi avrebbe deluso, come tutto del resto!" iniziò a piangere prima di uscire dalla porta della casa di Arthur.

Tornò in motorino in università: doveva raccontare tutto ad Harriet. Raggiunse più in fretta che poté la stanza della bionda dove la trovò intenta a studiare.

"Harriet" disse con voce singhiozzante al che la ragazza si avvicinò premurosamente a lei, portandole delle salviette per levar via il trucco colato.

"Arabella, che è successo...è per Arthur?" le chiese, invitandola a sedersi sul suo letto. La ragazza annuì.

"mi ha detto che non possiamo stare insieme" pianse così tanto che il petto le doleva.

"ma questo lo sapevi...tanto non ci sei andata ancora a letto, non avete nessun tipo di legame" a quelle parole Arabella si girò bruscamente verso di lei, fissandola in quegli occhi blu.

"oh Dio...non stai scherzando, deduco"

"già..." fu tutto quello che Arabella riuscì a dire.

"allora è proprio uno stronzo, ti usa per il sesso e poi ti dice che non potete stare insieme? Non capisco la sua logica"

"neppure io, Harriet, neppure io" disse con un tono che lasciava trasparire un misto di rassegnazione e delusione.

Era rimasta sola, di nuovo.

LOVE ON THE BRAIN - arthur morgan Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora