maledetta sveglia

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Ottobre 2023

Era una fresca mattinata d'autunno: il sole trapelava dalle tende della stanza del campus, illuminandola leggermente in modo che potesse assaporare tutto il suo tepore. L'atmosfera era così pacifica e tranquilla: la ragazza stava dormendo beatamente tra le calde coperte. Si raggomitolò per carpire quanto più calore possibile.

E poi suonò. Quella maledetta sveglia che non le dava pace. Con un colpo seccò la spinse sul parquet, rompendola.

"quanto ti odio" sbruffò, con capelli corvini tutti scompigliati. Non tergiversò ancora e si mise con le gambe a penzoloni sul letto, gemendo al contatto del freddo pavimento con il suo corpo caldo. Non era di certo il modo migliore per un dolce risveglio, pensò. Ma si accontentò e si mise in piedi per poi fare una lunga doccia calda.

Si stiracchiò in modo da rilassare i muscoli e scaricare la tensione accumulata nei giorni precedenti. Le lezioni erano iniziate da poco più di un mese e gli orari erano estenuanti, pensò Arabella, riferendosi all' infausto giovedì, giorno in cui avrebbe finito alle sette di sera. Ogni giorno si chiedeva come mai avesse fatto la scelta tanto avventata quanto ambiziosa, di frequentare l'università. Ma avrebbe dovuto farlo, per il suo futuro, anche se, in tutta onestà, non sapeva se mai ne avrebbe avuto uno in cui sarebbe stata veramente felice. Era ancora in preda alla sua depressione come una carcassa in mezzo agli squali, pronti ad attaccare.

Non tergiversò oltre e si diresse verso il suo armadio da dove estrasse un vestito di seta lucida nero fino al ginocchio ed una giacca di pelle bordeaux, assieme a delle calze 50 denari, molto sottili e sensuali. Ai piedi indossò i suoi fidati boots in pelle. Si truccò leggermente per poi uscire dalla stanza, quando il telefonò vibrò all'impazzata: era Shaila.

"pronto, Shaila?"

"ciao Bel, ci sei stasera da Vito's?" le chiese con la voce metallica.

"si, si- io--" non fece in tempo a finire la frase che una ragazza dai lunghi capelli biondi le finì addosso. Il caffè fumante che portava in mano si rovesciò sul vestito di Arabella.

"oh Dio, scusami...che disastro!" piagnucolò la giovane donna, passandosi le mani sulla camicetta bianca e la gonna che mostrava a lato un piccolo spacco. Arabella non fece a meno di notare quanto fosse attraente.

"comunque sono Harriet Van der Linde, piacere" le sorrise con fare imbarazzato.

"aspetta, ma tu sei per caso la figlia del direttore della famosa catena di Hotel?" chiese incredula.

"esatto...abbiamo anche aperto a Tahiti...mio padre è fissato con quel posto" rise "comunque siamo in ritardo per la lezione"

"penso che sarò ancora più in ritardo io dato che mi devo cambiare" disse adocchiando il vestito impregnato di quel liquido nero come la pece. Tornò in camera in fretta e furia per poi indossare un maglioncino bianco assieme a degli shorts di jeans a vita alta, il tutto accompagnato da parigine e converse.

Prese lo zaino, in cui non poteva mai mancare quella triste e insapore mela gialla. Quanto la odiava.

Uscì dal dormitorio per poi attraversare la piazza principale con al centro lo stemma della Columbia University. L'odore di erba appena tagliata si fece strada nelle narici della ragazza ed il cinguettio dei pochi uccelli faceva da sfondo a quella fresca mattinata.
Le lezioni passarono ad una velocità lenta ed estenuante, tanto che Arabella si ritrovava spesso a far ticchettare le unghie curate sul banco e a masticare gomme. Era distratta e si perdeva a fissare le persone che camminavano fuori dalla finestra. Si sentiva come se fosse la spettatrice della sua stessa vita: il rumore era ovattato, le persone sembravano muoversi a rallentatore. Del resto lo era sempre stata. Quando i suoi genitori litigavano, quando sua sorella li aveva abbandonati per scappare via con quel pazzo del suo fidanzato.

Si dice che tutti indossiamo delle maschere e per Arabella questa cosa non faceva eccezione. Il suo comportamento spavaldo e apparentemente sicuro non era altro che uno scudo, un rifugio in cui rannicchiarsi quando le forze venivano meno. Arabella nuotava nel suo dolore, pensava che a volte fosse il posto più comodo dove stare. Le sue stesse lacrime la cullavano, la coccolavano come una dolce melodia di primavera. Non aveva nessuno con cui sfogarsi, con cui parlare, nemmeno la sua ragazza Shaila che ogni tanto, durante qualche litigata, le faceva pesare il fatto che si sentisse responsabile della salute mentale di Arabella. Quanti notti la ragazza le aveva trascorse a piangere a dirotto, per una cosa di cui neanche lei aveva il controllo.

Voleva respirare ma i polmoni si chiudevano in una morsa. Voleva camminare ma le gambe tremavano. Voleva amare ma non si sentiva abbastanza.

La campanella finalmente suonò liberando gli studenti da quell'agonia. Si diresse alla mensa, prese il suo cibo e guardò tra i tavoli per trovare un posto libero in cui sedersi quando Harriet la raggiunse con il suo vivace sorriso.

"che ne dici di mangiare insieme, pago io il pranzo per scusarmi dell'inconveniente di prima"

"non ci pensare neanche" controbatté Arabella, tirando fuori dallo zaino il portafoglio. Si perse in quell'azione e non notò che Harriet aveva già pagato per entrambe.

"grazie, Harriet ma non dovevi" le sorrise teneramente.

"a proposito...vieni alla festa di stasera? Ci saranno un sacco di persone...soprattutto bei ragazzi!" rimarcò l'ultima parola.

"sono fidanzata, sarà per la prossima volta" declinò gentilmente l'invito.

Era pomeriggio inoltrato e Arabella notò che vi erano ben cinque chiamate perse da sua madre. Che cosa voleva dirle? Decise, dunque, di richiamare, la questione sembrava piuttosto urgente.

"pronto, mamma?"

"tesoro, finalmente hai risposto, io e tuo padre dobbiamo dirti una cosa importante. Il tuo vecchio psichiatra ci ha detto che non ti può più prendere in carico perché si trasferisce altrove... ti abbiamo prenotato una visita dal migliore di New York, il dottor Morgan. È alle sei"

"cosa? Oh va bene, ci andrò, dammi l'indirizzo" disse con fare rassegnato.

"va bene, ricorda che ti vogliamo bene, tesoro"

"anch'io" la salutò per poi riattaccare.

Uscì in fretta dal campus, per poi salire sul suo fidato motorino. La sua candida pelle rabbrividì al contatto con l'aria fredda della sera. Il sole stava tramontando e la Grande Mela era illuminata come il più bello degli alberi di natale. I rumori della città, le persone che passeggiavano, la coda infinita di macchine ed i grattacieli che si stagliavano sempre più un'aria moderna e vivace alla città.

Fece slalom tra le varie macchine e autobus: era, come di consueto, in ritardo. Dopo alcuni minuti, riuscì ad arrivare a destinazione. Il palazzo era quello. Prese l'ascensore facendo ticchettare le unghie sul passamano: era in ansia anche se non sapeva perché.
Una volta varcata la soglia venne accolta in un grande loft che si affacciava su Central Park, il quale era gremito dei colori aranciati, tipici della stagione autunnale. Vi erano due divani color panna, molto moderni, l'uno di fronte all'altro separati da un tavolino in vetro. Sulla parete regnava sovrana un'enorme TV.

"piacere, sono il Dottor Arthur Morgan" le disse con fare caloroso, seppur distaccato.

LOVE ON THE BRAIN - arthur morgan Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora