XX

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«Sembri mia madre quando ero minorenne e doveva partire per un viaggio lasciandomi solo per qualche giorno. Rilassati!». Lysander mi prese in giro, incredibilmente divertito dai miei movimenti frenetici.

Mi morsi la pellicina delle unghie. «Sono solo preoccupata di quello che potrebbe succedere mentre siamo via, credo sia lecito. Tu non lo sei?».

«A me non frega un cazzo». Con tutta la noncuranza del mondo addentò la terza barretta ai cereali di quel giorno e non si prese la premura di finire di masticare prima di parlare. «Non credo possa andare peggio di com'è sempre andata prima del nostro arrivo. La tua preoccupazione ha un nome e un cognome, Casper».

Sbuffai contrariata. Mi ero quasi pentita di avergli raccontato tutta la conversazione che avevo avuto con Airton un paio di giorni prima, non faceva altro che cercare di farmi ammettere che provassi le stesse cose che lui provava per me. Io, invece, volevo sotterrarmi e cercare di dimenticare la possibilità di provare qualcosa per un ragazzo che aveva una lunga condanna sulle spalle.

Mi sentii spingere gentilmente verso l'esterno del mio ufficio, dove ci eravamo messi per dividere un caffè annacquato, e guardandomi alle spalle notai le sue mani sulla schiena intente a spostarmi di peso verso il corridoio. «Forza, Casper. Va' a salutare i tue due pupilli della prigione prima che sia ora di lasciare questa isola di merda».

«Vado a dirgli arrivederci», lo corressi. E mi dissi ciò per evitare di avere un attacco di panico all'idea di salutarli davvero, perché un giorno - prima di quello che avrei voluto - sarebbe successo. Avrei dovuto dirgli addio.

Lo vidi alzare gli occhi al cielo quando mi voltai. «Se questo ti fa sentire meno triste specifica pure. Sei una drama queen».

«Sono la tua queen». Mi allontanai ridacchiando.

Lo sentii ribattere ad alta voce, così che fosse sicuro di essere sentito, e poco dopo la fine della frase scoppiai a ridere. «Attenta a quello che dici, Casper, perché potrei prenderti sul serio. Mi ci vuole solo un attimo a soffiarti da sotto il naso di quei due, solo uno!».

Lo avevo già detto una volta e lo ribadivo: Lysander era stata la ventata d'aria fresca in una giornata di piena estate, una secchiata di colore nei miei momenti incolore. Chiunque lui fosse destinato ad amare, e sperai vivamente che fosse un amore ricambiato, era una persona veramente fortunata. Era letteralmente impossibile essere tristi al suo fianco, aveva una battuta pronta per tutto e un umorismo contagioso.

Riusciva a rendere felici tutti tranne sé stesso, ma questa era la condanna di chiunque portasse un po' di colore nella vita degli altri.

Non sapevo chi due visitare prima, Vince aveva permesso ai detenuti di sgranchire le gambe in giro per la prigione, intimando loro di non trattenersi fuori troppo a lungo a causa della tempesta di neve che aveva colpito l'isola. C'era più freddo del solito, a causa del vento gelido che sferzava il viso e sembrava appoggiarsi proprio sulle ossa.

Alla fine non fui io a trovare lui, ma lui a trovare me. Mentre uscivo dal corridoio per entrare in infermeria, lui usciva dall'infermeria per entrare in corridoio. Ci misi meno di un minuto a individuare dei nuovi lividi sulla sua pelle candida, abbinati dolorosamente ad un taglio poco sopra il sopracciglio. «Ti trovo sempre qui eh? Che ti è successo stavolta?».

«Sono caduto dalle scale», si fermò per storcere il naso quando gli sfiorai la ferita. «Sai, alle scale piace cambiare».

Scossi la testa contrariata. «Hai difeso Rem? È da tanto che non lo vedo, spero stia bene». Si spostò di lato e mi permise di vedere il corpo di un detenuto steso sul lettino, dove di solito c'era lui, con gli occhi chiusi e il volto deturpato da molte più ferite e lividi. Sembrava che lo avessero massacrato. Mi sfuggii un imprecazione.

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