Capitolo 17. Scrivilo su carta

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Chiedere amore a me, è come chiedere se
Babbo Natale esiste.
Ness.


Ombra.

Non ricordavo, o meglio cercavo di non ricordare quando lei entrava nella mia stanza in piena crisi. Mi regalava tutte le lacrime che per lei erano troppe. Voleva insegnarmi a piangere, e farmi sentire i loro gusto. Mi ha insegnato le carezze, quelle che io non ho mai avuto e saputo cosa fossero. Ma le sue, erano dolci, e morbide.
Affettuose e tenaci.

<<sono Don Francesco ragazzo.>> disse l'uomo a me sconosciuto, rimasi perplesso, tra il dire e il fare, ciò che per me era difficile in entrambi i casi, tra il dirgli "vaffanculo" o "chiudergli la porta in faccia". Gli sorrido, quello che so fare bene. E con un segno della mano gli indico le scale, dove la signora o meglio la mia vicina attendeva quella stupida e insensata comunione. Chiedere aiuto a Dio e come chiederlo a un uomo inesistente, e se ciò esistesse sarebbe come chiedere aiuto a qualcuno che non potrà mai farlo. L'uomo così detto prete dei miei coglioni annuisce e mi volta le spalle, mostrando la sua schiena racchiusa in una camicia celeste. Per un attimo si blocca. <<é stato un piacere Daniel>> e da lì inizia la sua rampa di scale. Daniel... cazzo sa il mio nome? <<ei tu. Che cazzo ne puoi sapere del mio nome?>> gli urlo, ormai l'uomo é scomparso dalla mia visuale. Vaffanculo "prete".
Mi volto e chiudo con un tonfo lo porta alle mie spalle, e osservo la ragazza che si stiracchia ancora nuda. La rabbia mi attraversa lungo i muscoli, in poche falcate sono su di lei, mettendo le mani ai lati della sua testa. <<vattene>> gli ringhio, la ragazza si aggancia con le gambe ai miei fianchi. <<sei in tempo. Vattene>> gli dico a un soffio dalle sue labbra. Mette le mani al mio collo, e mi schianta le sue labbra sulle mie. Baciare per me é parlare. E se potrei parlare, bacerei le labbra della mia bambina. Gli mordo e marchio le labbra, fino a quando mi faccio strada di nuovo dentro di lei, ringhio, lei urla, mi graffia, e mi lecca, ed io mi godo le strade del peccato. Dentro, fuori. Fino allo sfinimento. Fino a quanto getto la mia anima sopra, dentro e fuori di lei. A chi importa? Lei non c'è. Lei non può vedere. Lei non può sapere. Devo scoprire chi è questo Don Francesco. Sapeva il mio nome. Sa, il mio nome. << si così, Dani.>> quello che adesso sta uscendo fuori dalle labbra di una perfetta sconosciuta, che mi crolla addosso e getta il suo veleno. Profumo diverso, labbra non sue, tocchi non morbidi e soffici. Avanti, indietro. Così. Di più, di più.

Se potrei parlare dell'inferno potrei dedicare i miei occhi, ho sempre pensato che a me fossero inutili, un po' come il mio cuore. Non ho mai saputo dire cosa fosse l'amore, o meglio, l'affetto di una carezza, di un bacio, il bacio lo potevo racchiudere dentro uno sfogo, il piacere di farlo, o dimostrare che quella persona ti va di baciarla. Non mi sono mai posto dei limiti. Tu mi dai qualcosa di tuo, ed io ti do qualcosa di mio. Ti avrei dato il mio corpo, per me era come cenere di un fuoco ormai spento, ti avrei potuto dare un bacio, o forse di più. Ma il respiro l'avrei conservato a lei. Solo a lei. Se un giorno sarebbe rimasta senza aria, gli avrei dato quello. Il mio respiro. Tanto a me non serviva. Tanto io non lo volevo. Non ha poi tanta importanza, per quanto tu varrai per qualcuno, alla fin fine io l'ho provato sulla mia pelle, nessuno darà mai niente nella vita senza volere niente in cambio. Ecco perché io mi sono già ritrovato all'età di 10 anni a saper già manovrare una pistola in mano, alla fine non ho mai "quasi" deluso nessuno. Nella vita non ho mai avuto niente da perdere. E quando tu non hai niente da perdere, tu potrai rischiare. Sei invincibile. E cosa non è più bello della forza? Sentirsi vulnerabile. Senza paure e rancori. Senza tristezza, e malinconia. Ma a volte, per chi si trova gli occhi come quelli miei, la malinconia la devi spegnere, renderla lava e farla scendere, lungo sentieri inesplorati. Ecco, perché, per non far piangere gli occhi mi sono ritrovato ad asciugarle con delle cartine. Oh, com'era bella la spensieratezza. E pensandoci un po', io non l'ho mai vissuta. Non ricordo un momento in cui mi sono ritrovato a giocare per terra come un semplice bambino, con in mano una o più macchinine e fare brum brum, come i deficienti. Quello che ricordo é sempre stato dentro una strada, i miei amici. A combinarne di tutti i colori. Il nostro era un quartiere diffamato. C'eravamo solo noi e l'eroina che in silenziatore girava per vicoli dove uomini si riempivano fino allo sfinimento, fino a dimenticare la loro identità. Ed io nascosto dietro qualche villetta, aspettando che gettassero nell'immondizia dei giocattoli per poter far giocare mio fratello, che rancore. Quel rimorso che si dovrà portare per tutta la vita mia "madre" per aver messo al mondo due bambini con una vita di merda che l'aspettava. Mio padre che non faceva un cazzo, e quel lavoretto che gli disse il nonno, lo mandò tutto in frantumi. Tanto lui era un uomo frantumato. Che cerca amore nelle opere d'arti troppe costose per lui. Ho preferito prendere la strada più facile, o almeno a quell'età credevo che fosse facile. Perché la cosa più difficile é vivere.

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