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UN'IMPROVVISA DECISIONE

Credevo che la follia di mia madre potesse essere gestita, ma mi sbagliavo

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Credevo che la follia di mia madre potesse essere gestita, ma mi sbagliavo.

A conferma di ciò, c'era la mia camera da letto completamente svuotata: i mobili erano stati cacciati via con prepotenza, i miei romanzi d'amore erano stati tutti imprigionati dentro affamate scatole di cartone, il mio spaventato telescopio era già sul crudele camion dei traslochi.

Sfiorai con le dita quelle grigie pareti che un tempo erano rivestite con della carta da parati violaceo rossastra: in alcuni punti, gli operai non erano riusciti a staccarla, donando, così, al muro la parvenza di avere ferite aperte e sanguinanti (un po' come mi sentivo dentro in quel momento).

«Signora, la prego!» un esasperato operaio, con la testa calva e una tuta grigiastra, mi distrasse dai miei tristi pensieri. «Questo è il nostro lavoro!» disse a mia madre, che sentivo urlargli contro non so cosa come una pazza. «Sappiamo cosa fare, e anche come, non c'è bisogno che ci dia delucidazioni ogni tre secondi: ci lasci lavorare in pace.»

Mia madre, Zaya Barlow, era una donna avvenente e che curava molto il suo aspetto (il mio esatto opposto, insomma): era una signora elegante nel vestire, ma non nei modi. Era stata etichettata in varie maniere da coloro che la conoscevano, ma gli epiteti più gettonati restavano comunque: insopportabile, esuberante (in senso negativo) e frivola.

Ero certa che i nostri vicini fossero assai contenti del nostro improvviso e inaspettato trasferimento, specie i Faucet che si chiudevano dentro a chiave non appena varcavamo il pianerottolo, anche se io non avevo proferito neanche una parola a riguardo.

Ricordavo ancora come il dramma ebbe inizio: eravamo tutti e tre seduti a tavola per cenare, mamma, papà e io, quando mia madre aveva sbattuto con violenza la forchetta sul tavolo e si era alzata in piedi per informarci del suo nuovo proposito.

«Eh, no, signorina!» mi aveva detto lei puntandomi contro il cucchiaio che teneva con l'altra mano. «Non tollero più questa situazione: i tuoi amici sono tutti a una festa stasera e tu sei qui a casa come se fossi la perdente di turno che non viene mai invitata. Non voglio avere una figlia sfigata! Tracy, hai quasi diciotto anni: dovresti uscire e divertirti! Inoltre, mi aspetto una festa mastodontica per la tua maggiore età, ricca di gente e di divertimento a non finire... Stai sempre rinchiusa ad ammuffire in quella tua stanza, a leggere libri, studiare e fissare quelle due tre stelle che si vedono dalla tua finestra... Ora basta! Ho capito che il problema è la grande città e la troppa gente che ti intimidisce per fare amicizia: cambieremo ambiente! Ce ne andremo da qualche parte dove ci sono meno persone e ti sentirai meno imbarazzata, così che per te sia più facile conoscere gente nuova!»

Mio padre la osservava con rassegnata disperazione, sapeva quanto me che, quando Zaya Barlow si metteva in testa qualcosa, doveva ottenerlo senza se e senza ma, anche se ciò che desiderava era fuori dalla nostra portata e o privo di alcun senso logico.

«Mamma... Io sto bene!» le avevo risposto, ritenendola sinceramente preoccupata per me, ma la verità era che io non avevo proprio alcun problema: ero un po' solitaria, sì, chiusa in me stessa, ma non per questo ero un'asociale che disprezzava il genere umano.

Il fatto che preferissi concentrarmi sullo studio, invece che coltivare amicizie che non sarebbero comunque durate, non faceva di me la malata mentale che mia madre stava descrivendo.

«Mamma...» avevo iniziato a parlare, consapevole di dover essere molto cauta nel farlo e che tanta audacia sarebbe potuta venire fraintesa. «Un cambio d'ambiente? Non ci si può mica trasferire da un giorno all'altro e poi... Non pensi a papà? Non sarà un bene per la sua salute!»

«E invece sì, farà bene anche a lui!» aveva ribattuto lei, sedendosi a tavola, lanciandomi occhiatacce furenti, e chiudendo lì il discorso senza lasciarmi il tempo di replicare alcunché. «Ne so più di un qualsiasi medico che lo vede solo per mezz'ora ogni tanto; io, tuo padre, lo conosco da anni, lo vedo tutti i giorni e so cosa gli può nuocere e cosa no!» si era sistemata una tovaglietta sulle gambe per non rovinarsi la nuova gonna nera che si era comprata quella stessa mattina.

Fu così che, lo stesso giorno seguente a quella alzata di testa, mia madre attaccata al telefono – con non sapevo bene chi – ci aveva informato che stava già trattando per una casa nella sua vecchia cittadina d'infanzia.

«Sì», mi aveva detto lei accarezzando il mio caschetto di capelli neri, non sforzandosi di far capire quanto poco le piacesse, «ce ne torneremo tutti nella cittadina dove sono cresciuta. Lasceremo Pinglo City per Snowy Mountain... Oh, che bella infanzia che ho avuto lì. Vedrai che ti piacerà! E, Tracy... elimina quella frangetta, altrimenti ti cresceranno i capelli sulla fronte così!»

Avrei amato solo teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora