𝓒𝓪𝓹𝓲𝓽𝓸𝓵𝓸 18

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𝙻'𝚘𝚖𝚋𝚛𝚊 𝚍𝚎𝚕𝚕'𝚘𝚜𝚜𝚎𝚜𝚜𝚒𝚘𝚗𝚎.

ᴇᴅɢᴀʀ

6 ottobre 2002
Isola di Cillian,
Oceano Pacifico, giurisdizione USA
Ore: 11:12

Era passato più di un mese da quando mio padre aveva deciso di chiudere i ponti con la città e di ritirarsi dalla scena, lasciando a me il compito di mandare avanti ciò che aveva cominciato lui.

Da quando mia madre si era ammalata, all'inizio di quell'estate, lui non era più stato presente. Non lo dava a vedere, ma avevo compreso il suo stato. Era un uomo distrutto e un uomo distrutto si aggrappa sempre a ciò che può e lui si era aggrappato alla speranza di strappare la donna, a cui aveva dato tutto, dalla morte.

Non mi piaceva vederlo così e ancora di più odiavo l'aria grigia che c'era in quella casa così le mie visite erano diventate sempre più rare e sempre più brevi.

Ero quasi salito in auto, qual mattino, quando la voce flebile di mia madre mi aveva immobilizzato con un piede fuori e uno dentro. «Sono sempre così brevi le tue visite.» aveva detto ed ero rimasto lì, incapace di voltarmi e guardarla in faccia. Mai come in quel momento mi ero visto senza midollo e mai come in quel momento avevo desiderato non provare nulla. Indossare per sempre la faccia di Nathair e poco alla volta dimenticare di toglierla.

Ci ero quasi riuscito. Avevo per poco tagliato fuori quel poco di percettibilità che avevo ma alla fine, Nathair si era rintanato e mi ero girato.

Avevo visto mia madre con uno scialle sulle spalle appoggiata allo stipite della porta. Magra e minuta come un esserino sul punto di scomparire, se ne stava lì ad osservarmi con due occhi sottili, dall'aria stanca e un sorriso era aggrappato alla sua bocca e non la lasciava andare. Il foulard sopra il suo capo nascondeva la perdita dei suoi folti capelli e avevo lottato contro me stesso per non lasciare fuori la rabbia che provavo.

L'avrei persa.

L'avrei persa e non ci sarebbe stato un nemico da punire. Non ci sarebbe stato nessuno da incolpare se non il decorso della vita.

«Edgar.» mi chiamò.

Rigido in tutto il corpo, mi voltai di nuovo verso la macchina. «Devo tornare in città.»

I sentimenti erano una debolezza e mi stavano facendo a pezzi.

«Non scappare, bambino mio.» fiatò lei ancora più debole di prima.

A quelle parole chiusi di colpo la porta dell'auto, sbattendola e mi incamminai verso di lei. «Dovresti essere a letto.» le dissi freddamente, «Dov'è l'infermiera?»

«Edgar!» tuonò lei bruscamente e quasi perse l'equilibrio. Mi mancò il fiato e la strinsi per le braccia per tenerla in piedi. Lei mi guardò con premura. «Siedi un momento con me.» mi pregò, «Là, in fondo.» aggiunse indicando il fondo del giardino.

L'albero di tiglio era ramato. Tutte le foglie cadevano lente spinte dalla brezza del vento.

Mia madre mi aveva preso sottobraccio e a piccoli passi mi aveva portato là. Ci siamo seduti sotto quella cascata di foglie, sulle sedie in legno e abbiamo ascoltato in silenzio per qualche attimo il fruscio dei ramoscelli sopra le nostre teste.

Lei, dopo un po', mi aveva guardato e aveva ancora una volta sorriso. «Posso vederlo?» mi aveva chiesto.

Era la seconda volta che me lo domandava.

Era passato un anno da quando mi ero fatto imprimere sul corpo la bestia che mi rappresentava. Quel tatuaggio l'avevo fatto soltanto per me stesso, per ricordarmi di quella notte, di viverla ogni giorno con la consapevolezza che non importava come io girassi le carte. Ero un mostro. Ero visto come tale da tutti e incutere paura mi dava soddisfazione.

Devotion 2 // Perfidia E Inganno //Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora