𝓒𝓪𝓹𝓲𝓽𝓸𝓵𝓸 20

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𝚃𝚊𝚝𝚝𝚘.

ɪʀɪɴᴀ

29 novembre 2005
El Cajon, Contea Di San Diego
California, USA
Ore: 2:47

Non riuscivo a chiudere occhio quella notte.

Era l'ennesima che passavo insonne tra senso di smarrimento e incapacità di adattarmi ai colori spenti delle ombre che volteggiavano sopra la mia testa.

Ero rannicchiata in una posizione fetale in quel scomodo e freddo letto nella stanza dell'appartamento che avevo affittato da poco più di due settimane. La zona era malfamata e inadatta per due ragazzine che si trascinavano dietro un neonato di appena due mesi ma non avevo avuto scelta. Il proprietario del motel ci aveva buttate fuori a causa dei continui lamenti dei vicini che sentivano il pianto di Tj.

Anche quella notte aveva preso a piangere a dirotto. Non mi lamentavo mai di quel rumore. Dirottava i miei pensieri altrove e riuscivo a restare lucida.

«Smettila.» tuonò Fannie all'improvviso. La sua voce si scontrò con le pareti spoglie e sporche della stanza. «Smettila di piangere!» urlò.

Non era la prima volta che perdeva la pazienza perciò non reagii. In fondo non potevo aiutarla. Come lei, non sapevo niente di come prendermi cura di un neonato.

Mi voltai dall'altra parte e cercai di non pensarci.

«Basta!» urlò lei ancora più forte e il pianto del bambino divenne più straziante. «Ti odio!» infierì aggressivamente e fu allora che mi portai a sedere. Non era mai arrivata a quel punto della sua rabbia e contro ogni mia volontà andai a bussare alla sua porta ed entrai senza aspettare una risposta.

La vidi da subito tutta irrigidita, con i pugni serrati lungo i fianchi, davanti a quel corpicino sul letto che era diventato rosso a forza di piangere. I suoi occhi, colmi di rabbia, non avevano niente di uno sguardo di una madre e la testa tremava dalla forza che impiegava per digrignare i denti.

«Fannie.» la chiamai e mi feci più vicina.

Il piccolo continuava il suo pianto disperato. «Perché non la smette?» mi chiese, «Che cosa gli ho fatto?»

Non le risposi. Non sapevo il motivo che spingeva quel piccolo a piangere ma di certo la sua rabbia doveva placcarla. «Fai un passo indietro.» le ordinai soltanto come se stessi parlando con uno scagnozzo di papà.

Lei si mise le mani in testa. «Sono stanca di questo mostro.» si disperò e si voltò di scatto.

Si vestì in fretta e furia e lasciò la stanza.

«Dove vai?» le chiesi mentre lei raggiungeva la porta per uscire. «Fannie.»

Lei non rispose.

La seguii anche fuori, lungo il corridoio, fino alle scale. Quel quartiere era una topaia se qualcuno le avesse fatto del male?

Lei imboccò le scale e io rimasi in cima, lasciandola andare.

Non potevo scegliere tra seguirla e restarmene con suo figlio. Non era una scelta, dopotutto. Dovevo restarmene con quello più debole.

Tornando indietro mi imbattei in questi due tipi che stavano forzando la serratura di una porta in fondo al corridoio. Ci abitava una vecchia lì. Una donna sui settant'anni che se ne stava spesso giù, al portone e chiacchierava con i passanti. Più di una volta senza alcun freno alla lingua aveva dato della troia a Fannie. Così giovane e così disagiata, diceva. Povero piccolo!

Così, indifferente, davanti alla porta, ero rimasta a scrutare quei due. Indossavano entrambi una bandana su metà volto e non si erano accorti subito di me. Ad un certo punto. uno alzò la testa e poi si raddrizzò. Si sollevò la T-shirt e mi fece vedere il manico della pistola infilata nei pantaloni. «Levati dalle palle, bambolina.» mi aveva biascicato e l'altro sghignazzò. «Se lo desideri tanto, da te passiamo dopo.» disse mentre aprivano la porta ed entravano.

Devotion 2 // Perfidia E Inganno //Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora