Capitolo 1 - Isabella Patterson

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«Cosa diavolo sto facendo qui?»

È la prima frase che dico appena arrivo in aeroporto a Los Angeles. Un luogo enorme, anche se è un eufemismo. In Italia non ci sono posti così, non abbiamo abbastanza spazio.

Ci sono vetrate ovunque che fanno entrare luce senza però scaldare l'ambiente anzi, qui fa davvero molto freddo. Ci saranno centocinquanta gradi sotto zero. Ho letto da qualche parte che lo fanno per neutralizzare i batteri per evitare qualche epidemia. Non mi stupirei se fosse vero...

Dicevo: tanta luce, freddo glaciale, un'infinità di facce, vite e colori che diventano una macchia sfocata che mi gira intorno.

Mi costringo a fare un ampio respiro, i polmoni sembrano accartocciati come se fossero fatti di carta. Potrei svenire e non posso. Sono da sola e quando si è soli bisogna stare attenti agli scippi e ai molestatori. Anche questo l'ho letto da qualche parte prima di partire, solo che non sembrava così terrificante come in questo momento.

Resto appesa alla maniglia del bagaglio a mano come se fosse l'unica cosa che mi evita di sprofondare mille chilometri sotto la crosta terrestre.

Non sono mai stata temeraria nella vita e di certo mai mi sarei aspettata di ritrovarmi in America. Cerco il cellulare nella borsa, lo accendo e ricevo subito due notifiche. La suoneria familiare mi riporta a terra. Incredibile quanto veloce possa essere il cervello a portarti dalla paranoia pura a "okay, adesso sono calma."

La prima notifica è di mia madre. Mi fa salire il nodo alla gola e le lacrime pungono gli occhi.

"Appena arrivi scrivimi per favore. Ti voglio bene e ci manchi già..."

"Arrivata mami, tutto ok. Ti chiamo più tardi quando mi sono sistemata. Ti voglio bene."

Faccio un calcolo veloce, in Italia saranno le tre del mattino, forse le quattro. Già me li immagino i miei attaccati al cellulare, facendo finta di distrarsi con il rumore della televisione in sottofondo ma in attesa di un mio segnale.

La seconda notifica è quella di Marco, il mio migliore amico da una vita, trasferito in America per amore e attualmente in cerca di occupazione: "Sei già nel panico o stai respirando?".

Mi conosce meglio di quanto io conosca me stessa. Il messaggio è di due minuti fa. Rispondo: "Resisto ma ora che me lo hai detto sto cominciando a iperventilare."

Guardo la scritta Marco sta rispondendo al messaggio... e questo mi fa sentire più a fuoco, più reale. Sta capitando davvero.

"Ti aspetto, muoviti!"

Seguo le indicazioni per prendere i bagagli, un altoparlante annuncia qualcosa che non riesco a capire, nomi di città scorrono su pannelli neri. Le rotelle della valigia di un ragazzo cigolano, una donna con la testa coperta da un velo parla al telefono a un volume troppo alto mentre un gruppo di studenti ride e scherza e indossano tutti le felpe di una qualche università.

Mi sembra di essere finita dentro uno di quei film che guardavo distesa sul divano di casa con una bacinella di pop-corn e una coca cola.

Seguo le frecce e mi concentro sui miei passi. Dopo un tempo interminabile raggiungo la zona dello scarico-bagagli dove il grosso serpente nero cigola come una bandiera segna vento non oliata. Quante valigie, quante vite tutte condensate in pochi centimetri quadri.

Eccola lì! Quando cade sul nastro trasportatore fa un rumore sordo. Gli vado incontro squittendo dalla gioia. La recupero e mentre mi dirigo verso l'uscita faccio davvero fatica a tenere un'andatura tranquilla. Sono così nervosa che mi metterei a correre.

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