Capitolo 32 - Hai dimenticato qualcosa?

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Ho camminato per tutta la notte, mi sentivo un'ombra che vagava per la città senza una meta, senza un posto dove andare. Lo so, è assurdo. Una casa ce l'ho e sono anche fortunato, però se ripenso al mio appartamento, al momento mi sembra troppo affollato.

Sono stato con lei per tutta la serata, non avrei mai potuto lasciarla sola. È stato strano osservarla mentre dormiva, portarle da bere quando a malapena riusciva ad aprire gli occhi.

Il bagliore del suo sorriso mentre mi guardava attraverso un vetro appannato.

Per la prima volta nella mia vita mi sono sentito al posto giusto. Non scalpitavo per andarmene, non ho mai pensato che la vita fosse altrove e che stessi sprecando del tempo. No, per la prima volta mi sentivo tranquillo. Tutto sarebbe andato bene, qualsiasi cosa fosse accaduta.

Poi sono tornati i suoi amici. Sembravano piuttosto brilli e non ero convinto di lasciarla lì da sola. La sbronza che si è presa sull'aereo con mio padre non è di quelle passeggere... queste ti lasciano vuoti temporali che non tornano neanche dopo anni.

Forse è per questo che sono stato tranquillo?

Tiro il cordoncino che ho al collo, la chiave esce da sotto la maglietta e la rigiro nella mano. Sospiro e la rimetto al suo posto, sentirla a contatto con la mia pelle mi dà una sensazione di sicurezza. Con la punta della scarpa colpisco un sassolino che rimbalza davanti a me e va a finire dentro al tombino.

Riconosco questa strada e la metto a fuoco. Un inserviente sta spazzando il marciapiede davanti al teatro, mi riconosce e mi saluta con un cenno del capo.

«Ciao Sam. A lavoro presto oggi?»

«Come sempre, Reev...» Si appoggia al bastone, «Hai dimenticato qualcosa?»

«No, sono solo in anticipo».

«Vai pure, Troy deve ancora arrivare».

Dai jeans tira fuori un mazzo di chiavi e mi apre la porta.

«Perfetto, grazie». Sento i suoi occhi su di me finché non sparisco tra le porte del teatro.

Hai dimenticato qualcosa?

Quella domanda mi vortica in testa, è come stare in una di quelle giostre con i cavalli che girano e girano e girano, senza sosta.

La moquette rossa attutisce i miei passi e mi sento come un fantasma che cammina indisturbato attraverso gli anni, le epoche.

Osservo i loggioni sopra di me che sono come tante caverne buie, le applique spente, il palco vuoto con lo sfondo ancora a pezzi... è quasi patetico vedere il teatro in questo stato, triste e senza magia. Il silenzio è incredibile, potrebbe finire il mondo lì fuori e non me ne accorgerei neppure.

Hai dimenticato qualcosa?

Cosa può essere?

Proseguo nella mia camminata in solitaria, salgo sul palco dove le ombre sgattaiolano dietro ai manichini e agli abiti, per osservarmi. Il corridoio è silenzioso e desolato, un lungo serpente lucido, illuminato da una luce fredda.

Non riesco a reprimere un brivido e mi stringo nelle spalle finché non passa oltre e mi lascia solo. Quando arrivo davanti alla porta del mio camerino mi accorgo di aver stretto le chiavi nel palmo per tutto il tempo. Apro la porta e sgattaiolo dentro con urgenza, come se avessi percepito qualche pericolo incombere alle mie spalle. Eppure, sono certo che non ci sia nessuno o è dalla mia coscienza che sto cercando di sfuggire?

Immagino tutte le domande che premono sulla porta, che appoggiano le loro orecchie per captare segnali di vita.

Mi lascio cadere sulla sedia e osservo il mio riflesso sullo specchio. «Cavolo...» sussurro.

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