1. Correva l'anno 1943.

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Correva l'anno 1943 e l'Italia era patinata dal sangue.
Frammentata su se essa, a causa del proprio governo, aveva condannato se stessa ad essere lo zerbino per le due grandi potenze che primo o poi si sarebbe scontrate, accrescendo il baratro di fame, dolore, distruzione e morte che si era creato in quegli anni grigi.
Invasa da nord a sud da forze straniere, aveva abbandonato sia le proprie truppe allo sbaraglio e alla mercé del nemico, senza ordini o piani di contrattacco, sia il proprio popolo, senza nulla se non delle bombe che cadevano a grappoli nelle città dichiarate «aperte» e "lasciate a guardia" per lo più occupati da avidi quanti fanatici sciacalli, come era accaduto a nord con la neo istituzione della Repubblica di Salò o al sud con le cosiddette Marocchinate.
Il re, aveva abbandonato la propria patria, Mussolini l'aveva regalata ai nazisti e Badoglio l'aveva lasciata sola, indifesa e priva di qualsiasi tipo di fiducia.
Così iniziarono a insorgere le prime fazioni di anti-nazifascimo, mentre si attendeva lungamente l'arrivo degli Alleati via mare.
E mentre i treni si riempivo di ebrei, storpi, disabili, avversari politici, omosessuali e tutti coloro che erano contro le nuove regole, la vita del popolo non era affatto facile, a partire dei beni di prima necessità: i prezzi lievitarono vertiginosamente, in un paese senza lavoro era difficile pagarsi le spese, la tessera che aveva procurato il regime per i primi due anni di guerra non serviva più a niente.
Anche trovare il pane era divenuto difficile.
Tutti lo sapevano, eppure i fascisti e i tedeschi che imperterriti continuavano a seminare orrore e violenza, in onore di un idolo folle e senza senso, sembravano ancora non averlo capito. Infestavano le strade ricolme di macerie e imponevano pesanti coprifuochi, inoltre molti deportavano le persone nelle fabbriche in Germania per la fabbricazione di armi e/o per la leva forzata che colpiva sempre di più i giovanissimi, visto le scarse risorse di truppe.

Passò un mese, e a Meletto la vita era grama, per le persone che erano rimaste e non costrette alla vita nelle trincee, in pensiero per i loro cari e per il domani, in attesa nei rifugi antiaerei, vennero scossi finché dei rombi di motori pesanti irruppero in città. Dalla sommità della collina, si potevano osservare in un preoccupante arrivo, le jeep e gli autocarri tedeschi, griffati dalle svastiche.

Quello stesso giorno, il 10 ottobre, il sindaco Graciliano Verini, alto e gracilino in tutte le sue sfaccettature, fece il suo ultimo annuncio: date le dimissioni pubbliche di -apparente- propria volontà, presentò accanto al podestà fascista Adelardo Acrisi, il nuovo comandante del paese: Herr Kommandant Ernst Schröder, brutto e bassino, ma si diceva crudele quanto spietato.
Fece il suo discorso in un italiano scorretto quanto marcato dall'accento tedesco, non che lui se ne importasse di imparare l'italiano, la sua voce attraverso i megafoni appariva come un raglio feroce e crudo e questo mise agitazione nella popolazione, perfino in Fiona Caldaroli che stringeva la mano del suo fratellino Dario, accanto al parroco don Orlando e alle altre migliaia di persone stanche ed ansiose che erano state costrette ad adunarsi in piazza.

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