19. Interrogatorio (I)

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Si svegliò con la sensazione di avere metà corpo ghiacciato.

Era stesa di fianco su un pavimento di fredda pietra. I polsi erano ancora ammanettati, e le spalle le dolevano come se qualcuno le avesse tirato le braccia con tutte le proprie forze per ore e ore.

Con cautela e qualche difficoltà, si raggomitolò su se stessa e si mise dapprima in ginocchio e poi, una gamba alla volta, in piedi. Le faceva male la testa e aveva dei violenti capogiri, ma provò un certo sollievo nel constatare che a terra non c'erano macchie di sangue (perlomeno, non recenti) e che, tutto sommato, il suo corpo sembrava rispondere abbastanza bene ai comandi.

Si trovava in una cella umida e minuscola, larga meno di uno Stelo e lunga mezzo. Era priva di qualunque suppellettile, letto compreso; unica eccezione un vaso da notte macchiato e scheggiato. Da un angusto finestrino, senza né sbarre né vetri, ma troppo stretto perché qualcuno potesse passarci attraverso, filtravano un po' di luce e il rumore del mare, che evidentemente non distava molto.
L'ambiente odorava di muffa e di stantio.

Man mano che gli occhi si abituavano alla penombra, Amina fu in grado di cogliere sempre più particolari: oltre la grata che l'aveva privata della libertà, un corridoio dalla pavimentazione sconnessa; per la sua lunghezza si aprivano altri loculi identici al suo, e in quello proprio di fronte a lei...

Un corpo riverso a terra.

Lo stomaco della giovane fece una capriola quando riconobbe nella folta massa di capelli scompigliati, la chioma color miele di Velluto. Stava dormendo, o almeno così sembrava: il respiro era regolare anche se pesante ma, quando provò a chiamarla, non ottenne nessuna reazione.

Qualcosa si ribellò, dentro di lei.

Adesso che era stata catturata, la pirata sarebbe stata senza dubbio condannata a morte e impiccata. Ma un conto era giustiziare un criminale in ottemperanza alla legge e dopo un processo, ben altro discorso era lasciar morire un prigioniero per le percosse, come un animale ferito rintanatosi nel bosco.

Cominciò a chiamare a gran voce e reclamare di essere ascoltata.

Di lì a poco, la porta in fondo al corridoio si aprì, cigolando e sbattendo, e una guardia lo percorse con passi pesanti e strascinati.

Doveva avere tra i sessanta e i settant'anni.

Di chiare origini Onischiche, probabilmente frutto di un'unione mista, era un uomo corpulento, non più alto del normale ma assai robusto, col ventre gonfio tipico di chi beve molta birra. L'uniforme macchiata e consunta, di almeno due taglie più piccola, era tesa addosso a quel corpo massiccio come la vela di una nave riempita dal vento.

Camminava con la schiena arcuata all'indietro, strusciando i piedi a terra, come se sollevarli quel tanto in più che bastava fosse per lui una fatica insopportabile.

Senza una parola, costui aprì la cella, prese Amina per un braccio e la strattonò fuori senza tanti complimenti.

«Dovete fare qualcosa per quella donna!» strillò lei, nonostante le sembrasse che quei movimenti bruschi le stessero strappando la spalla dal resto del corpo «sta male! Bisogna chiamare un medico!»

Il poliziotto la ignorò, limitandosi a condurla attraverso un labirinto di scale e corridoi, a volte trascinandola, a volte spingendola, senza mai aprire bocca, nemmeno per rispondere alla domanda su quale fosse la loro destinazione; al punto che, verso la fine, la giovane cominciò a chiedersi se in realtà non fosse muto.

Si fermarono davanti a un uscio spalancato.

Il suo accompagnatore bussò con le nocche di indice e medio.

«Quella arrestata al mercato, come volevate.» grugnì. Aveva una voce gracchiante e stentorea, come se non ricordasse più come fare a usarla.

Finalmente tolse la mano da dove, Amina ne era certa, le sarebbero rimasti dei lividi; gliela appoggiò sulla schiena e le rifilò un violento spintone. La Termite rischiò di cadere di faccia, ma per fortuna all'ultimo istante riuscì a recuperare l'equilibrio.

Era stata introdotta in una ambiente ampio, con le pareti disseminate di schedari metallici e di dipinti di mare, in egual misura. Gli unici mobili erano una imponente scrivania, quasi interamente occupata da documenti di ogni tipo, e due sedie.

Dietro alla scrivania sedeva un uomo di mezza età, con i cortissimi capelli brizzolati e gli occhi così chiari che sembravano di ghiaccio; le pupille, nervose, vibravano anche quando lo sguardo era fisso, come se faticassero a reprimere l'impulso a saettare di qua e di là.

Quello sguardo ad Amina ricordò le Scutigere incontrate al villaggio delle Coccinelle.
Indossava un'uniforme impeccabile, senza una piega né una macchia.

«Mi chiamo Nasim, e sono il direttore di questa struttura di detenzione.» si presentò, senza sorridere. «La legge mi impone di condurre questo colloquio anche se, per quanto mi riguarda, il fatto di accompagnarvi alla famosa criminale nota come Velluto, dovrebbe essere di per sé una prova sufficiente a convalidare il vostro arresto.»

«Lei mi aveva rapito!» ritorse Amina, in tono piccato.

Il militare si accigliò, si alzò in piedi e percorse i pochi passi che lo separavano dall'unica finestra della stanza. Con le mani dietro la schiena, si prese un lungo momento per contemplare il mondo esterno.
«Da questo momento, parlerete solo quando siete interrogata» mormorò, con voce tagliente.


La giovane comprese che non doveva essere un uomo molto paziente. Risoluta a non contrariarlo, rimase docilmente in silenzio finché l'altro, ancora innervosito, si voltò e le chiese: «avete capito bene?»

Solo quando lei, composta ed educata, si limitò a rispondere "sì" con la testa bassa, lo sconosciuto sembrò rilassarsi un pochino. Ripreso posto alla scrivania, vi stese sopra un foglio di carta con alcune domande precompilate, e cominciò a rivolgerle alla prigioniera, appuntandosi le risposte con una matita.

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