capitolo 43

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Blake

Mia madre mi dà le spalle, i capelli raccolti in una crocchia disordinata.

La vestaglia le arriva fin sotto il ginocchio, si volta rivelando un sorriso caloroso, gli occhi si increspano facendo comparire delle piccole rughette ai lati.

Si siede al tavolo, la sedia di fronte alla mia e poggia il vassoio con le due tazze di tè. Il liquido nerognolo oscilla nella tazza. Il fumo che ne esce si elegge tra noi due.

Prendo la tazza e il calore mi riscalda le mani, soffio al bordo e ne prendo un sorso. Il sapore dolciastro si espande sulla lingua, scivola in gola e scalda di poco il freddo che sento all'interno.

Lancio uno sguardo al cellulare abbandonato sul piano, come se una sua notifica potesse comparire solo grazie alla mia forza di volontà.

«Non ti ha ancora risposto» la voce di mia madre spezza il silenzio. La sua è un'affermazione ma mi ritrovo lo stesso ad annuire.

Sospiro frustrato buttando l'aria fuori dai polmoni.

«Vuoi condannarla? Dopo tutto quello che le hai fatto.»

Prendo un altro sorso di tè solo per tenermi occupato ed evitare le sue parole. Fingo che il bruciore agli occhi sia dovuto al fumo che continua ad uscire dalla tazza e non dal pizzicore costante di lacrime che non escono.

«Non dovresti consolarmi, mamma?» Sforzo la mia voce ad assumere una nota sarcastica. Piego le labbra all'insù per simulare un sorriso.

Mia madre alza gli occhi al cielo, le iridi costantemente adombrate da una tristezza che non conosce eguali.

La casa è vuota, si potrebbe definire abbandonata in un certo senso. Posso ancora vedere davanti agli occhi la figura di mio padre china sul computer a lavorare. Posso ancora sentire i battibecchi tra me e Jack e nostra madre che ci intimava di fare silenzio.

Guardo fuori dalla finestra, il cielo completamente oscurato dai nuvoloni neri.

Pioverà.

I miei pensieri vengono interrotti dal tonfo procurato dalla ceramica posata sul tavolo. La donna posa i gomiti sul piano, incrocia le mani e ci posiziona il mento sopra.

«L'ho fatto. Il giorno in cui sei venuto da Manhattan completamente scosso.»

Sospiro dal naso. Passo una mano fra i capelli mentre nei miei pensieri prendono vita le immagini di quel giorno. Non so quanto tempo io sia rimasto in quello stanzino dell'hotel, dopo quanto io sia uscito. Ho bene impressi, invece, le ore passate in aeroporto e in volo a trattenere quelle poche lacrime che volevano uscire. Arrivato a New York, davanti la porta di casa, sono definitivamente crollato.

«Senti, è onorevole quello che volevi fare, non lo supporto appieno, ma è onorevole.» Riporto l'attenzione su mia madre che scruta ogni mio movimento.

«Sento un "ma" arrivare.»

Ridacchia e sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Ma ne è valsa la pena per quello che hai perso?» Sappiamo entrambi la risposta.

Passo il dito sul bordo della tazza per poi appoggiarla sul piano provocando il tonfo.

«Mamma, l'ho persa per sempre.»

Passo le mani ancora calde sul viso in modo frustrante, strizzo gli occhi sotto le dita e sbatto le palpebre più volte per eliminare i puntini che invadono la vista.

Mamma mi prende un palmo stringendolo nel suo, la pelle rugosa e sottile. I piccoli calli che sfregano sulla mia pelle.

«Dove abita?»

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