𝑇𝑟𝑒𝑛𝑡𝑎

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Da quando i miei genitori erano morti avevo compreso quasi tutte le vie in cui il dolore poteva intaccare la mia stessa mente.

C'era quel dolore ceco e sordo che scava dentro il corpo come un parassita rivoltando le interiora, mangiandole lentamente fino a lasciare il corpo completamente vuoto, annegato in un oscuro mare putrido. Arrivava poi quel dolore che ti ride in faccia, additandoti come una patetica anima senza speranza, non conta quanti passi in avanti sembra che tu faccia, le persone ti guarderanno sempre come una reclusa, come un'orfana ed una poverina.

C'è il dolore che non se ne andrà mai, un fantasma triste in un angolo oscuro della mente, con quello io ero arrivata a patti, ad accettarlo per quello che era, convivendoci silenziosamente. Lo stesso dolore che sapevo appartenere a Morfeus.

Morfeus.

Che cosa aveva visto dentro i miei occhi quando ci si era specchiato per la prima volta? Sapevo che aveva odiato l'azzurro in essi e che poi l'odio si era trasformato desiderio.

Le ore passavano ad intermittenza.

Per la maggior parte del tempo ero incosciente, lì i miei pensieri erano appannati da un'onta liquida e viscosa, a volte viravano in incubi dal quale non riuscivo a svegliarmi, lente ombre e fredde dita attorno alla gola.

Per qualche orribile momento, però, ero abbastanza sveglia da poter vedere roccia scura sopra la mia testa. Non ero stesa su nulla, il mio corpo fluttuava inarcato in una posizione innaturale, quelli erano i momenti peggiori, la vera tortura. Non potevo urlare ne muovermi, ma potevo sentire le lacrime scendermi calde dalle guance per poi finire nel vuoto.

Non mangiavo, eppure a volte sentivo una goccia calda e senza sapore scendermi sulla lingua poi giù dalla gola, mi teneva in vita abbastanza perché potessi riaddormentarmi.

Quello era il mio limbo, intrappolata nel mio stesso corpo. Inerme ma inviolata, sola a sopportare la mia stessa mente, le urla che la mia gola chiusa non poteva esternare e gli incubi.

Rimasi in quello stato per un tempo indefinito finché la forza che mi teneva ferma nel vuoto semplicemente mi lasciò andare e come se fossi stata una bambola a cui avessero tagliato i fili, io caddi.

Sbattei la guancia su pietra dura, il dolore si riverberò anche nella testa mentre lo zigomo mi pulsava dolorosamente. Gemetti, l'unico suono che riuscì ad uscire dalla mia gola e rimasi immobile al freddo, l'odore di stantio mi feriva le narici.

Cercai di vagare con lo sguardo, di capire dove mi trovassi ma da quella posizione riuscii solamente ad intuire che si trattava di una grotta umida e scura. Non sentivo nemmeno il gocciolio dell'acqua, sembrava una tomba di roccia fredda il cui unico scopo era trattenere l'ospite ancora in vita.

Qualcosa nell'oscurità si mosse, producendo una cacofonia assordante di pietra su pietra e per quanto sperassi che il mio sarcofago stesse venendo aperto, la paura di scoprire da chi sovrastò il sollievo. Perché venivano a prendermi proprio ora? Non bastava come tortura tenermi lì dentro?

Qualcuno decise che non lo era per niente, perché sentii dei passi risonare nella grotta, una luce pallida e mortifera si allargò nel mio campo visivo. Rantolai, cercando di strisciare il più lontano possibile ma dopo tutto quel tempo di digiuno, i miei arti erano stremati e riuscii a malapena a muovermi.

La luce si fece più nitida e i miei occhi riuscirono a mettere a fuoco chi teneva in mano la povera Fiammella intrappolata.

Nel suo delirio si era fatto una corona di fiori ed ossa, i capelli si confondevano tra di essa come onde d'oro liquido. Se ne stava davanti a me come un fantasma scarlatto, le ali iridescenti riflettevano la luce della Fiammella e il volto contratto in apprensione sorridente.

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⏰ Ultimo aggiornamento: 5 days ago ⏰

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