Capitolo 44 - Accomplice

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  Daphne fu portata al San Mungo da alcuni degli Auror, mentre il resto degli studenti fuori dai dormitori, quella notte, erano stati scortati nell'ufficio della Preside. La McGranitt, preoccupata tanto da triplicare le rughe d'espressione sulla fronte, sedeva alla scrivania: i gomiti poggiati sul ripiano, gli occhiali scivolati sul naso, i capelli legati in uno chignon ormai semi-disfatto. Hermione si rese conto solo in quel momento che, nonostante fosse piena notte, nessuno dei due professori – nell'ufficio vi era anche Piton oltre la Preside – indossava il pigiama. Entrambi erano vestiti, proprio come se dovessero tenere una lezione da un momento all'altro. Strano. O, forse, previdente.
Probabilmente i professori e gli Auror si aspettavano un qualche attacco ed erano rimasti allerta. Da quante notti ciò accadeva? Seduta sulla sediolina imbottita di fronte alla donna, Hermione ne scrutò il viso, in cerca di una risposta. Le profonde occhiaie della McGranitt furono una risposta eloquente. Piton, seppur ritto, composto e impassibile come sempre, al suo fianco, non sembrava messo in condizioni migliori: come se fosse possibile, la sua pelle risultava ancora più pallida e gli occhi, in genere vigili e acuti, erano velati di un sottile strato di frustrazione.
Harry, chinato con le braccia sulla spalliera della sedia di Hermione, aveva in volto un'espressione pensosa, assorta, distratta e la giovane Grifondoro non aveva bisogno di alcun "Legilimens" per sapere cosa gli passava per la testa: "Se Daphne Greengrass che è una Serpeverde è stata aggredita, proprio come Ginny, allora i Serpeverde sono da scartare dalla lista dei possibili colpevoli.". Perfino lui sembrava, adesso, convinto che Blaise Zabini – inchiodato su una sedia di fronte a Piton – fosse estraneo all'accaduto, nonostante la sua bacchetta recasse tracce di un incantesimo di Magia Oscura. Altra precisazione che sovvenne alla mente di Hermione, in quel frangente, fu ciò che gli Auror avevano riferito alla Preside durante il tragitto al suo ufficio: l'incantesimo utilizzato non era stato riconosciuto da nessun mago o strega, questo perché la magia usata era tanto oscura e potente da fungere da difesa per se stessa.
Ron, troppo alto per starsene seduto senza coprire completamente la preside alla vista degli altri presenti, era in piedi, accanto alla finestra e si agitava talmente da far saltare i nervi di Hermione: quanto avrebbe voluto gridargli di starsene un po' fermo! Tutto quel dimenarsi non faceva altro che attirare lo sguardo della Grifondoro nella sua direzione, direzione che lei aveva tutta l'intenzione del mondo di evitare per un motivo semplice: Draco Malfoy.
Egli se ne stava accanto alla sedia di Zabini, lo sguardo gelido volto in un punto non ben identificato della parete e l'aria altrettanto assorda di quella di Harry. Ogni volta che Hermione si era arrischiata ad accarezzarlo con lo sguardo – piena di imbarazzo e timore – lui non l'aveva assolutamente calcolata. No, meglio: non si era nemmeno accorto che lo stesse guardando. Hermione sentiva una leggera nota di frustrazione pungerla nell'orgoglio: d'accordo che anche lei si era pentita di quel bacio e delle conseguenze cui avrebbe potuto portare, d'accordo che faceva finta che tra loro le cose fossero rimaste esattamente le stesse di prima dell'incidente a Ginny, d'accordo che c'erano – nella stanza con loro – anche amici e professori, ma, Godric, un'occhiatina che male poteva fargli?!
Quando si rese conto dell'assurdità delle sue pretese e dell'incoerenza dei suoi pensieri, decise che la mancanza di sonno, la preoccupazione per Ginny e Daphne, il senso di colpa verso quest'ultima e i suoi migliori amici, le stavano giocando brutti scherzi. Scosse il capo, leggera, nascosta, cercando di concentrarsi su cose veramente importanti: perché diamine la bacchetta di Zabini risultava quella con la quale Daphne era stata aggredita, tanto per dirne una. O, cosa ancora più assurda: perché mai Zabini avrebbe dovuto far una cosa del genere?
Un'altra fugace occhiata – a quest'ultimo, stavolta – sortì nella ragazza lo stesso, irritante, effetto: quello di far scivolare il suo sguardo da lui al suo compagno di Casa. Hermione si ritrovò a pensare che, almeno, adesso Malfoy era scagionato dalle accuse per l'aggressione a Ginny.
- Signor Zabini. Se anche credessi alla sua versione, come spiegherebbe il fatto che la sua bacchetta risulta immischiata in quanto accaduto stanotte?- domandò la McGranitt, decisamente molto più gentile e comprensiva di quanto fosse stata, meno di due settimane prima, con un altro membro della Casa di Serpeverde accusato di un crimine gemello.Gli occhi cobalto di Zabini scattarono in quelli della donna e questa quasi sussultò, come se una scarica elettrica l'avesse colpita. Si affrettò a ricomporsi, sistemando gli occhialini sul naso aquilino e stringendo le labbra sottili.
Nott, rimasto in disparte fino a quell'istante, si fece avanti. – Professoressa McGranitt. Blaise è stato con me per tutta la sera. Non è fisicamente possibile che sia stato lui a fare...- s'interruppe, un'espressione frustrata sul viso, mentre cercava la parola adatta a descrivere l'accaduto. –quello, - risolse, infine.- a Daphne. -.
Lo sguardo del Professor Piton, dopo essersi posato su Nott per qualche secondo, si volse alla donna. – Minerva, Nott testimonia l'innocenza di Blaise Zabini. Concorderai con me sul fatto che il cugino della malcapitata non avrebbe motivo di coprire il suo aguzzino, giusto? – il suo tono era il solito: monotono e atono. Eppure, Hermione ebbe la forte sensazione che stesse cercando di risolvere alla svelta la faccenda, come se avesse cose più importanti da fare.
- Non vorremmo mandare alla gogna un altro studente senza prove più che certe.- aggiunse, sottile, l'uomo.La McGranitt, ergendosi in tutto l'orgoglio dei Grifondoro, con le narici larghe per l'indignazione, parlò in modo secco e deciso. – Nessuno, più di me, desidera che i colpevoli – i veri colpevoli -, sottolineò, - di questa faccenda vengano presi e puniti come giusto che sia.- sputò. Piton, impassibile, si limitò ad un cenno col capo. – Naturalmente.- commentò.
- Felice di vedere che siamo perfettamente d'accordo, Severus.- aggiunse la Preside, tornando a concentrarsi sul gruppetto di studenti.
- Hermione.- chiamò, accomodandosi nuovamente e prestando alla ragazza tutta la sua attenzione. Quest'ultima avvertì tutti gli sguardi dei presenti appuntarsi su di lei.
- Dimmi: cosa avevate da dirvi, tu e Daphne, stanotte? Cosa ti ha spinto ad infrangere le regole?- domandò, ma, questa volta, nella sua voce non vi erano accuse o note di delusione: la McGranitt pareva comprensiva e dolce, gentile.Hermione era combattuta: da un lato, la possibilità che la sua – e di Malfoy – teoria sulla colpevolezza di Pansy Parkinson – o, almeno, il suo coinvolgimento nella faccenda – fosse corretta e che, quindi, metterne a parte la Preside fosse necessario e fondamentale affinché fossero presi provvedimenti al più presto. Dall'altra, temeva d'essere in errore e di distogliere Auror, Professori e chicchessia dalla ricerca della persona che aveva ridotto in quello stato orribile la sua migliore amica e Daphne.
Inoltre, non essendo stata lei, fisicamente, presente, quella notte in Sala Grande, Hermione non sapeva come spiegare l'aver notato l'assenza di Pansy. Certo, alla McGranitt sarebbe potuto sfuggire quel dettaglio e avrebbe potuto immaginare che fossero stati Potter o Weasley a dire alla loro compagnia che la Parkinson non c'era, quella notte. Il problema erano proprio questi due: Harry e Ron non le avevano certo detto nulla del genere e, di conseguenza, si sarebbero chiesti da chi arrivasse quella soffiata. Cosa avrebbe risposto? Nott e Zabini avrebbero di certo negato un loro coinvolgimento, lasciando come unico indiziato Malfoy. E, cosa ancora più grave, i due Serpeverde avrebbero capito perfettamente cosa Hermione aveva fatto, quella notte. Dove era stata, con chi. Non poteva permettere che i segreti di quella notte, il tradimento, quel bacio peccaminoso, il suo abbandono alla parte oscura, l'aver mentito e rubato ai suoi miglior amici, venissero a galla.
Lanciò un'occhiata a Malfoy, stavolta cercando il suo sguardo e non sfuggendolo: c'era dentro anche lui, in fondo. Erano saltati da quel precipizio insieme e, adesso, cominciavano i conti da pagare. Stava a lui: glielo fece capire perfettamente.
La soffiata di Pansy veniva da lui e se avesse preferito tenerla per sé e indagare per conto proprio, lei lo avrebbe lasciato fare. L'avrebbe anche aiutato, magari. Perché, se c'era una cosa, una soltanto, che Hermione aveva capito di Draco Malfoy era questa: il suo istinto raramente sbagliava.


Sebbene tutti gli sguardi fossero su di lei, Draco si sforzava di non seguire la marea: doveva stare bene attento a come si comportava, poiché, per quanto tardi, Potter e Weasley avevano un sesto senso per tutto ciò che riguardava la loro favorita. In tutto il caos che stava avvolgendo la scuola e, in special modo, il loro gruppetto – sebbene gli facesse ribrezzo ammetterlo, rispondeva a verità il fatto che, in un modo o nell'altro, loro sei, otto con la Weasley e Daphne, si ritrovavano sempre immischiati insieme nei casini –, non poteva certo permettersi una sfida a duello per l'onore della Granger. Era escluso, niente da fare.
Prima di tutto, aveva da capire cosa diamine fosse successo quella notte, perché l'avesse baciata, perché lei non lo avesse cruciato e, soprattutto, dove Salazar si fossero andati a cacciare tutti i suoi principi e le sue convinzioni, colonne della sua educazione, nonché binari della sua esistenza, fino a quella notte.
Come seconda – ma non meno importante – cosa da fare, c'era, ovviamente, il cercare di evitare la Granger il più possibile. Il motivo? Semplice: non aveva alcuna intenzione di affrontare con lei il discorso "acerrimi nemici/bacio/sette anni di odio" e così via. E, ancor meno, aveva voglia di sentirsi forare i preziosi timpani dalle sue domande infinite o, peggio, dalle sue recriminazioni.
Perché Draco l'aveva letto negli occhi di lei, un'ora prima, in corridoio, che era pentita e si sentiva in colpa per quel bacio. Hermione Granger era una strega brillante, con una mente ingegnosa e complessa, un carattere stoico, furbo, vivace e razionale, ma, al contempo, non era in grado di gestire i sentimenti, per quanto elementari fossero. A Draco vennero in mente i calderoni esplosivi di Paciock: ecco, in fatto di emozioni, la Granger era così. Incapace di gestirli. O li ingabbiava o andavano a briglia sciolta. Sebbene, da un lato, lo lusingava l'idea di averle fatto fare "boom" o mandata in tilt o in qualsiasi altro modo avrebbe potuto definirsi il fatto che non l'avesse ucciso seduta stante, quella notte, d'altro canto sentiva che la Granger che si era abbandonata al suo abbraccio e aveva stretto le mani tra i suoi capelli, era rimasta in quella cella e non ne era più uscita.
Terzo, ma non ultimo, fattore importante, in quel gioco mortale che era diventato l'equilibrio delle relazioni all'interno della scuola, era la sua assoluta certezza che dietro quella storia ci fosse Pansy Parkinson. Doveva solo capire come, perché e chi la stava aiutando. Pansy non l'avrebbe passata liscia per ciò che aveva fatto a Daphne, Draco lo giurò su sé stesso – non sul suo nome, poiché, in quel momento, di quel nome non si sentiva molto fiero. Risolto il problema alla radice, avrebbe potuto tornare alla vita di sempre. Avrebbe potuto dimenticare quei due mesi assurdi, fuori dal mondo. Avrebbe potuto concentrarsi sugli esami e lasciare per sempre alla spalle Hogwarts e ciò che significava: morte, tradimento, rinnegazioni, rimorsi, rimpianti, dolore. Granger.
Si, si sarebbe lasciato alle spalle anche lei. Trovava assurdo l'idea di pensare a quella ragazza come ad un pezzo di vita da dimenticare: lei non era mai stata nulla di più della Sangue Sporco venuta ad inquinare Hogwarts con i suoi capelli ribelli e quello sguardo penetrante, con la mano sinistra sempre in alto e la vocetta fastidiosa. D'improvviso, quando?, era divenuta parte della storia, della sua storia?
Draco lo sapeva, ma era difficile ammetterlo, perfino con se stesso: la Granger gli aveva creduto. Tutto lì. Le sue difese erano crollate, con lei, perché lei era la purezza, la morale, l'onore. E aveva creduto alla sua innocenza, senza chiedere prove o ridendo delle sue spiegazioni. Draco non sapeva se mai qualcuno avesse creduto in lui davvero, in modo disinteressato e privo di secondi fini.
Bellatrix, quella pazza di sua zia, gli aveva ripetuto sempre, durante il penultimo anno, quanto dovesse considerarsi fortunato per la fiducia che Voldemort aveva riposto in lui, assegnandogli un compito da svolgere ad Hogwarts. Fiducia, certo, forse era meglio parlare di profitto.
I suoi amici, Blaise, Theo, Daphne: certo, loro credevano in lui. Ma fino a che punto? Sapevano bene chi era Draco, qual era la sua famiglia e a quale vita apparteneva. Come tutti loro. Quando si conosce tanto bene qualcuno, perché le proprie esistenza sono, in qualche modo, gemelle, se ne conoscono anche le debolezze, i cedimenti, i fallimenti e le paure. E, tutti loro, avevano paura. Paura di un futuro segnato, impossibile da rinnegare. Di una vita scandita come i rintocchi di un orologio, perfettamente organizzata, in attesa solo che il confine tra adolescenza e mondo adulto fosse varcato.
La Granger no. La Granger era il mondo su cui non si era mai affacciato. Quello oltre il muro, oltre i confini. Il bosco, selvaggio, sconosciuto, fitto, profondo, ribelle, inesplorato. La Granger era la scelta, la possibilità, il riscatto. La redenzione?
La osservò, ignorando il cianciare dei due Professori: eccola. Pelle di luna, occhi di mandorle e fiele, chioma d'onde impazzite.
Evitava il suo sguardo, perfino la posizione del suo corpo – completamente volta alla scrivania – sembrava respingerlo.
L'avrebbe lasciata in pace. Lo avrebbe fatto. Perché, in fondo, glielo doveva, per quanto il pensiero di dover qualcosa a qualcuno, a lei, fosse penoso per un Malfoy. Perché si era reso conto che non era alla sua altezza, della purezza del suo cuore e non l'avrebbe sporcata e infangata con la sua essenza. Perché lei gli aveva fatto capire perfettamente che non voleva avere a che fare con lui.
Perché era un codardo, nonostante tutto, e non aveva il coraggio di affrontare il dolore che le aveva causato in passato.
Avrebbe preferito sfidare a duello mille volte Potter e Weasley, perfino tutta la Casa di Grifondoro, per lei, ma non poteva sfidare quegli occhi e sperarne di uscirne vincitore. No. Hai vinto, Granger: il nostro peccato resterà in quella cella.
E, in quell'istante, eccola che si voltava a fissarlo. Aveva udito distintamente tutto ciò che la McGranitt le aveva domandato, ma, preso com'era dalle sue riflessioni, dovette concentrarsi sulle parole ripetute a mente, perché non aveva realmente ascoltato.
E lei continuava a guardarlo, come in attesa di una risposta. La Parkinson. Voleva sapere se doveva dire o no alla Preside ciò che lui le aveva riferito. No, non doveva. Perché a Pansy ci avrebbe pensato lui, perché non era certo di poter provare ciò che aveva detto.
Scosse impercettibilmente il capo, rivolto a lei. Non si sorprese del fatto che lei lo capisse perfettamente, neanche lui avesse parlato con parole eloquenti. La connessione tra loro, nata in quella cella, in quella cella non ci era rimasta, come tutto il resto.
La Granger, distogliendo gli occhi dai suoi, si rivolse alla Preside. – Non lo so, Professoressa. Era Daphne ad avere qualcosa da dirmi: credo avesse dei sospetti su chi potesse essere stato e voleva parlane con me.- spiegò, mentendo facilmente perché, in fondo, ciò che aveva detto corrispondeva a mezza verità. La McGranitt, sebbene non convinta, si limitò a fissarla intensamente per qualche istante.
- Bene.- espirò, alla fine. – Professore, le posso chiedere di riaccompagnare gli studenti di Serpeverde al dormitorio?-
- Certamente.- fece Piton, lapidario.
- Signor Zabini, la sua bacchetta, per ora, è confiscata. Mi sembra il minimo di precauzione da prendere, fino a quando non arriveremo al nodo di questa faccenda.- aggiunse la donna e Blaise le rivolse un sorrisetto carico di amarezza.
- Potter, Weasley: voi tornerete a Grifondoro insieme agli Auror.- disse ancora la McGranitt, facendo un cenno con la mano, invitando tutti ad uscire.
- Professoressa, Hermione?- domandò Weasley, avanzando fino a raggiungere l'amica. Potter, ancora nella stessa posizione alle spalle di questa, sembrava non avere alcuna intenzione di essere escluso dal colloquio privato.
- Penserò io a riaccompagnare la signorina Granger.- liquidò la preside, alzandosi e aprendo la porta dello ufficio. Piton fu il primo ad uscire, fermandosi sulla porta per fare un cenno stizzito a Blaise, Notte e Malfoy. Draco, dopo un lungo sguardo alla Granger, seguì gli altri fuori. I due Auror si schiarirono la voce, richiamando l'attenzione di Harry e Ron. – Da questa parte.-I due ragazzi, con espressione tetra e scura in volto, uscirono dalla porta come se fossero condannati a morte in procinto di raggiungere il patibolo.



- Hermione, voglio essere sincera con te.- esordì la Preside, di nuovo seduta al suo posto. Hermione notò quanto quella poltrona sembrasse grande per lei: pareva quasi inghiottirla. Le spalle ricurve, l'aria stanca, la McGranitt sembrava essere invecchiata più in quell'anno che durante i primi sei.
- Non credo che tu mi abbia detto tutta la verità sull'incontro di stanotte.- sospirò.
- Professoressa...-
- Lasciami finire. – la interruppe. – Ti conosco bene e so che, a differenza di Potter e Weasley, hai la testa sulle spalle e non faresti nulla di avventato.-. Ogni parola era una fitta al cuore per Hermione. La McGranitt nutriva una stima e una fiducia per lei che non meritava. Si era dimostrata un'irresponsabile, quella notte, altro che testa sulle spalle. Il peso della colpa le gravò sul cuore, poteva sentire le lacrime pizzicarle il naso.
- Voglio solo chiederti di fare molta attenzione. – continuò la donna. – Per quanto io abbia fiducia nella vostra intelligenza e nella forza, nelle vostre abilità e nel coraggio, non posso negare che vi siano cose, a questo mondo, cui nemmeno voi sareste in grado di far fronte.- le disse. Sembrava parlare più a sé stessa che a lei, come se fosse persa in chissà quali ricordi. – Vedi, Hermione, c'è un motivo se non siete stati coinvolti in ciò che sta succedendo. Non siamo degli ipocriti e sappiamo bene quanto siate stati fondamentali per la vittoria della Seconda Guerra Magica. Tuttavia, ciò che ci apprestiamo ad affrontare, è di una portata tale da impedirci di essere tanto egoisti da coinvolgere degli studenti. Dei ragazzi. Delle giovani vite. – sospirò, torturando la bacchetta con le dita lunghe e ossute. Hermione avvertiva la tensione irrigidirle gli arti, obbligandola in una posizione scomoda anche da seduta.
- Professoressa, mi dica che sta succedendo. Qual è la minaccia che grava sulla scuola? Se potessimo conoscere ciò che ci minaccia, potremmo affrontarlo meglio, non crede?- le disse, ricordando quando, un giorno, durante una delle solite lezioni di Trasfigurazione, la McGranitt aveva detto: "si ha paura di ciò che non si conosce".La preside sorrise, rammentando anch'ella quelle parole e volgendole una rapida occhiata di orgoglio e tenerezza.
- Non dovrete affrontarlo, non temere.- si affrettò a rassicurarla. Ad Hermione quelle parole parvero più una condanna che una consolazione.
- Cosa intende?-La donna si sporse a guardarla con gli occhi piccoli e chiari e la ragazza potè leggervi dentro tutto il peso che la morte di Silente e la Guerra avevano gettato su di lei. – Due alunne sono state colpite da incantesimi di magia oscura, antica, potente e, a quanto pare, invincibile. Hogwarts non è più un luogo sicuro. Sarete rimandati tutti a casa, entro la fine della settimana.- disse, lapidaria, solenne, decisa. Hermione sentì la terra mancarle sotto i piedi. La testa prese a girarle, in un vorticare di nomi, volti e domande.
- Cosa...cosa sta dicendo?!- esclamò, costretta ad aggrapparsi con entrambe le mani alla scrivania per restare seduta e non accasciarsi. – Hogwarts è il posto più sicuro per tutti!- aggiunse. – E Teddy! Io devo andare al San Mungo, non posso tornare a casa! Devo restare vicina all'ospedale...- obbiettò, flebile. – E qualsiasi cosa ci minacci non si fermerà certo di fronte ad una scuola vuota! Ci troverà anche lì fuori!- indicò, con veemenza, la finestra e il mondo esterno.
- Saranno i vostri genitori a proteggervi e decidere cosa sia meglio per voi.- sospirò la Preside, stanca e provata. – Il Ministro della Magia è stato chiaro: se un altro incidente come quello capitato a Ginevra Weasley fosse accaduto nella scuola, gli studenti sarebbero stati riaffidati ai genitori. Mi dispiace, Hermione. – le disse, alzandosi. La raggiunse e le posò le mani sulle spalle, aiutandola ad alzarsi.
- E cosa ne sarà di chi ha genitori babbani, eh, professoressa?- chiese, con uno sguardo inviperito, la ragazza.La McGranitt sorrise. – Sei abbastanza forte da poter proteggere la tua famiglia, Hermione. E sono sicura che i Weasley non abbandoneranno né te, né Potter.- affermò.
- Non mi riferivo a me, professoressa. Non sono l'unica figlia di babbani in questa scuola e non tutti hanno la fortuna di avere una famiglia come quella che ho io, in questo mondo.- spiegò Hermione, mentre la Preside l'accompagnava, irreversibilmente, alla porta. L'espressione sul volto di questa era una maschera di tristezza, dolore e frustrazione. – Mi dispiace.- disse soltanto, prima di chiudere la porta e precederla per le scale. Inutili furono i tentativi di Hermione di parlare ancora, o di cavarle qualche altra informazione. La McGranitt si chiuse in un mutismo sordo fino all'entrata della Torre dei Grifoni. Attese che Hermione avesse varcato la soglia e scomparve.

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