5-In trappola

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Aladdin

Mi svegliai di soprassalto e con un violento mal di testa.

Non ricordavo come ero arrivato fin lì - probabilmente mi avevano colpito per far sì che non mi ribellassi alle guardie -, e non riuscivo ad identificare lo spazio in cui mi ritrovavo.

Era buio tutt'intorno, eppure ringraziai la notte per l'unica fonte di luce, quella proveniente da una finestra sbarrata, troppo alta da poter raggiungere e unico mio panorama.

La seconda sensazione fu un dolore lacerante ad entrambe le braccia che mi fecero render conto della mia attuale situazione: ero incatenato, una sbarra di ferro bloccava entrambe le mani in una posizione alquanto scomoda che mi sarei volentieri risparmiato. Per quanto tempo ancora avrei dovuto tenere le mani alzate come uno sciocco?

Tentai di scuotermi, sperando che il metallo utilizzato fosse scadente almeno quanto il corpo di difesa della città, ma inutilmente.

La mia testa era impiegata in ben altri pensieri che si tramutarono ben presto in una lunga chioma scura, due occhi d'onice e un paio di labbra schiuse, troppo vicine alle mie, che m'infondevano già il loro dolce profumo.

Jasmine.

O per meglio dire, la principessa Jasmine.

«Era una principessa!», esclamai, guardando il cielo di pietra, «Non posso crederci!», riflettevo ad alta voce ed il silenzio della notte era mio complice così come l'oscurità che si portava dietro.

Se qualcuno avesse potuto vedermi in quel momento avrebbe visto solo un volto arrossato di rabbia mista a vergogna: «Devo esserle sembrato così stupido!», nonostante sapessi che non era quello il mio problema principale, non riuscivo a smettere di pensarci.

Ogni qual volta provassi a distogliere l'attenzione su altro, magari sui possibili modi per uscire di lì, l'immagine della principessa mi ritornava alla mente, affollandola di domande e nuovi pensieri che sembravano non volermi lasciare in pace.

Poi, all'improvviso, dal totale silenzio arrivò una voce, un versetto stridulo e famigliare che mi obbligò ad alzare lo sguardo verso la finestrella dove una figura in controluce si muoveva sul suo piccolo posto, agitando un minuscolo filamento di ferro che avrebbe fatto proprio al caso mio.

«Abu!», chiamai, ritrovandomi improvvisamente a sorridere –almeno non ero solo in quel postaccio!-, «Avanti, vieni qui!», e, come chiesto, lo scimmiotto scivolò giù, raggiungendomi.

Non pareva però così tanto desideroso di aiutarmi.

Mi guardava con aria offesa e per un momento mi parve un ragazzino, un fratellino alla quale avevo fatto un torto di qualche tipo.

Poi mi resi conto di cosa stesse pensando: era per colpa mia che mi trovavo qui, non avrei mai dovuto farmi abbindolare da quella ragazza, dalla futura erede al trono.

«Oh, avanti, era nei guai!», esclamai, sperando di scuoterlo dalla sua amarezza, «Cosa avrei dovuto fare, lasciarla lì?», con quello che parve uno sbuffo, Abu salì sulla lastra di metallo ed iniziò ad armeggiare con il fil di ferro: allora gli avevo insegnato bene!

All'inizio non avrei mai creduto di potergli insegnare qualcosa, infondo era pur sempre un animale!

E invece eccolo qui, il mio fide compagno, ad armeggiare con i suoi strumenti pur di tirarmi fuori da qui. A volte era così simile ad un uomo da farmi chiedere se non fossi io l'animale tra i due.

«E comunque tranquillo», borbottai, «non la rivedrò mai più!», e volevo convincere più me che lui, questo lo sapevo e non l'avrei negato mai, «Ricordi? Sono solo uno straccione mentre lei è l'erede al trono e sposerà un principe. Lei merita un principe», quelle parole mi ferivano come un'arma ma non potevo farne a meno, dovevo sapere che era così, convincermi che lei non avrebbe mai potuto amare qualcuno come me, della mia casta sociale.

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