9. Alì Ababua

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9.

Alì Ababua

Jasmine

«Jasmine, per favore figliola», la voce di mio padre era triste e persuasiva ma non avrei ugualmente aperto la porta, «non potrai rimanere lì per sempre».

Invece si che posso, pensai, mordendomi la lingua pur di non pronunciare quel pensiero, sono la principessa e tutto ciò che voglio mi spetta, afferrai il cuscino di piume, morbido e liscio sotto le dita tremanti, e lo premetti contro le labbra pur di non ricominciare a piangere o ad urlare.

«Va bene, bambina mia», il Sultano sospirò e immaginai che avesse chiuso gli occhi, come faceva sempre ogni qual volta era troppo triste o stanco per discutere con me, quando entrambi sapevamo che tanto sarei stata io ad averla vinta, come sempre, «se mi cerchi, per parlare o anche solo per un abbraccio, sarò giù nel mio studio», sentii i suoi passi allontanarsi.

Li contaii ad uno ad uno e, quando mi assicurai che si fosse allontanato abbastanza, corsi verso la balconata, aprendo le braccia e respirando l'aria pungente del mezzogiorno.

Da lontano sentii passi pesanti, inumani, numerosi e rapidi, canti e urla lontane d'approvazione.

Aguzzai lo sguardo e, poco lontano dalle porte esterne delle mura del palazzo, notai una folla di uomini e donne, circondati dai sudditi di Agrabah.

Davanti a tutti vi era un uomo robusto, vestito in maniera inusuale, che parlava ad alta voce affinché tutti lo ascoltassero.

«Corri Jafar! Vieni a vedere!», proprio come me, anche mio padre ed il Visir si erano affacciati dal balcone che fiancheggiava, poco distante, il mio, attratti dalla musica e dalla voce prorompente dell'annunciatore inatteso.

Egli prendeva per mano donne e bambini, trascinava via gli uomini dai bazar e dai loro posti di lavoro, portantoli in mezzo alla folla affascinata, annunciando l'arrivo di qualcuno di importante, venuto da molto lontano, ritenendo fortunati chi avrebbe avuto l'occasione di incrociare il suo sguardo.

Dietro di lui si apriva una fila di mangiatori di fuoco, a cavallo di cammelli dal pelo dorato, rivestito di gioielli d'oro. Vi erano inoltre suonatori di campane d'argento e di mangiatori di spade che armeggiavano le armi lucenti, battendole tra di loro in un'armonica danza.

«Largo a Sua Maestà!», urlavano i suonatori battendo il passo.

«Largo al Grande Alì!», ribattevano gli altri, avanzando spediti verso il Palazzo.

Seducenti ballerine si muovevano dietro di loro, coperte solo di veli semitrasparenti e ricoperte di pietre preziose che abbellivano i loro capelli e i loro corpi sinuosi e leggeri, producendo leggeri ticchettii ad ogni movimento di bacino o delle mani.

«Guardate!», annunciò l'uomo di fronte a tutti, indicando un punto più lontano da dove si trovava lui, «E' proprio là!».

Il mio sguardo scivolò sulla figura mastodontica dell'elefante color argento, l'unica cosa sobria in tutto quello spettacolo eccessivo, sulla cui schiena vi era un baldacchino di legno, coperto da piume di pavone, nascondendo chiunque vi fosse all'interno.

«E' il Grande Alì! Alì Ababua!», come per magia, le piume scivolarono dal baldacchino, mostrando la figura di un giovane ben vestito, il quale abito bianco sembrava quasi riflettere la luce del giorno, accecando chiunque gli fosse intorno.

Al suo passaggio, la folla s'inchinava con umiltà, sorrideva e lo acclamava, alzando le mani e facendo apprezzamenti sulla sua figura.

L'annunciatore iniziò ad indicare le sue innumerevoli ricchezze: i suoi mille cammelli d'oro, trasportati con cura dai suoi domestici, e i pavoni color viola e blu, e le sue innumerevoli bestie esotiche, rare e preziose.

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