13. Vecchie promesse

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Aladdin

Giravo nervosamente per la stanza regale che il Sultano aveva fatto preparare appositamente per me, il pretendente scelto dalla sua unica figlia, suo futuro marito e prossimo regnante di Agrabah.

Quel pensiero mi turbava, stringendomi la bocca dello stomaco e facendomi tremare tutto, dentro e fuori. Battevo i denti e non riuscivo a prender sonno.

Jafar era ancora lì fuori, libero, e non riuscivo ad immaginare come avrei potuto proteggere Jasmine ed il regno senza smascherarmi.

«Sultano!», esclamai, sfilandomi il cappello, «Ed io dovrei fare il Sultano?», sentivo le bugie ricadere su di me come macigni.

Come avrei spiegato a Jasmine la verità? Dirle chi ero e ciò che avevo fatto per esser lì non avrebbe fatto altro che allontanarmi e non potevo permetterlo.

Ora più di prima non riuscivo ad immaginare un mondo senza di lei al mio fianco.

Improvvisamente, dalla lampada nascosta nel copricapo, il fumo blu del Genio annunciò il suo arrivo ma, senza farmi distrarre da lui, continuai a camminare nervosamente nella stanza, tentando di non ascoltare il suo sciocco inno all'"eroe trionfatore".

«Al!», disse, riapparendo in un secondo di fronte a me.

Inquadrò il mio volto tra le dita, mantenendosi a debita distanza.

«Allora, hai conquistato la ragazza! Cosa farai adesso?», esclamò, entusiasta per me.

Centrato in pieno, pensai, abbassando lo sguardo, cosa farò ora?

Vidi il suo sguardo incupirsi attraverso la sua immagine riflessa nello specchio e, non potendo affrontarlo, mi diressi nel cuore della stanza, grande almeno il doppio di quella in cui io ed Abu avevamo vissuto abusivamente per anni, gettandomi a pancia in giù sull'enorme materasso di piume.

Dalla finestra, Abu e Tappeto esultavano di gioia, muovendosi felici al di fuori della stanza.

«Pss...», bisbigliò il genio, riapparendo alla mia destra, «quello che dovresti dire è: ora ciò che farò è liberare il genio, comunque», il suo tono era ironico, o quasi, ma tra le righe lessi la speranza di un mondo nuovo dove non poter esser più il genio della lampada, legato a quell'oggetto maledetto per sempre, ma semplicemente Genio, il mio più caro amico, coi suoi sogni ed i suoi desideri, senza dover più compiacere nessun altro se non sé stesso.

«Genio», la mia voce tremava, non volevo dire ciò che stavo per dire ma non avevo scelta, «Io... non posso», non osai guardarlo ma immaginai la sua espressione.

Pensai al suo cuore, andato in mille pezzi, retti solamente da una flebile speranza che scompariva come un sogno lontano.

«Oh, ma certo che puoi, Al! Hai conquistato la ragazza, no?», sentivo la sua voce tremare ed io non riuscivo a non tremare. Pensavo solamente: non posso farlo, non posso farlo, non posso farlo.

«Dovrai dire solamente "Genio, voglio che tu sia libero" ed il gioco sarà...», prima che potesse continuare, lo scostai, e, rimettendomi in piedi, mi allontanai da lui.

«Genio, sono serio! Mi dispiace... Mi dispiace davvero ma... Loro mi vogliono così? No!», tremavo, la mia voce scuoteva non solo le corde vocali ma il mio intero corpo, flagellato da quelle realtà che avevo celato troppo a lungo, «Loro vogliono incontrare il principe Alì! E senza di te...», solo allora trovai il coraggio di guardarlo dritto negli occhi grandi e pieni di emozione e me ne pentii immediatamente, «Senza di te sono solamente Al!»

«Ma sei l'unico...», voleva convincermi, lo vedevo, lo voleva con tutte le sue forze.

Ma io ero troppo arrabbiato con me stesso per accettarlo.

«Ma solo grazie a te!», urlai, «L'unico motivo per cui loro pensano che io meriti tutto questo sei solo tu! Cosa penserebbero se sapessero che non sono un principe?», tremai al sol pensiero, «Cosa penserebbe Jasmine?», guardai il vuoto, credendo che fosse quella l'unica risposta.

Se anche mi avesse voluto ancora, suo padre non le avrebbe mai permesso di sposarmi, e l'avrei persa. L'unica vera risposta era il vuoto.

Così era prima di conoscerla e così sarebbe stato il futuro: vuoto e senza di lei, senza alcuna ragione per svegliarmi ancora al mattino.

«Genio, io non posso farcela con le mie sole forze!», dissi, esasperato, tornando a guardarlo, «Non posso liberarti, mi dispiace».

Avrei voluto che lui capisse.

Che mi guardasse e sorridesse com'era accaduto solo poche ore prima, ma ciò non avvenne.

«Va bene», disse, evitando il mio sguardo, «d'altronde hai mentito a tutti quanti, iniziavo a sentirmi escluso», la sua figura iniziò a rimpicciolirsi, avvicinandosi alla lampada, immobile sul materasso, «e se ora volete scusarmi... padrone», con un furioso inchino, la figura di Genio scomparve all'interno della lampada.

Avrei voluto dire semplicemente "mi dispiace" ma la rabbia mi pervase e, afferrando un cuscino, sotterrai quel maledetto oggetto all'interno del materasso, ringhiando.

«E voi?», dissi, rivolto ad Abu e Tappeto, «Perché mi guardate in quel modo?!», urlai, fin troppo rabbioso.

Notai in Abu uno sguardo strano e mi sentii immediatamente il colpa quando lo vidi darmi le spalle ed allontanarsi, con Tappeto al suo fianco.

«Ragazzi...», dissi, rimettendomi in piedi, «Abu, aspetta, mi dispiace, io... Avanti!», rimasi solo, nessuno mi ascoltò ed avevano ragione.

Tutto ciò che facevo, tutte le mie parole, le mie promesse, andavano in frantumi come vetro schiantatosi al suolo.

«Cosa sto facendo?», mi domandai, osservando nuovamente l'angolo vuoto, «Genio ha ragione: dirò a Jasmine tutta la verità!», strinsi la mano in pugno, ed alzai lo sguardo verso il cielo illuminato dal sole.

«Alì!», mi sentii chiamare da fuori.

Jasmine.

«Alì, puoi venire un momento?», sembrava impaziente.

Sospirai nervoso, guardando la lampada semi-nascosta dal cuscino.

«E' arrivato il momento...», m'incamminai, solo, verso l'uscita.



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